Un mondo di profughi

Rapporto Onu – Per il 7. anno consecutivo i flussi sono aumentati
/ 02.07.2018
di Pietro Veronese

Una domanda semplice: qual è il continente che ospita il più gran numero di rifugiati? Probabilmente la maggior parte delle risposte si dividerebbero tra Nord America ed Europa, ma sarebbero sbagliate. La risposta esatta è l’Africa. Il continente più povero di posti di lavoro, di risorse, di infrastrutture, di riserve alimentari è anche quello più ospitale. Contrariamente all’idea che possono avere le nostre opinioni pubbliche europee, la stragrande maggioranza dei milioni di africani costretti alla fuga dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle carestie, non vanno in cerca di un porto e di un barcone per raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo. Si fermano nel Paese vicino, spesso appena oltre la frontiera, e aspettano solo il momento di poter tornare a casa.

C’è di più. In alcuni Paesi, per esempio l’Uganda che ha accolto di recente l’immensa ondata di fuggiaschi scappati dalla guerra civile del Sud Sudan – per un totale, al momento, di 1,4 milioni di persone – ai profughi è consentito muoversi liberamente e cercare un’occupazione. Nei campi per loro allestiti non sono rinchiusi, ma possono andare e venire a piacimento, così come coltivare la terra, contribuendo alla propria sicurezza alimentare; possono competere sul mercato del lavoro, commerciare, avviare imprese. Le autorità ugandesi sono convinte che questa politica giovi sia ai rifugiati che ai loro cittadini, perché crea ricchezza e posti di lavoro. Altri Paesi stanno avviandosi nella stessa direzione. Naturalmente non sono tutte rose e fiori: basti pensare alle ricorrenti ondate di violenze xenofobe in Sud Africa, specie contro i profughi dello Zimbabwe.

C’è un motivo se l’Africa è così accogliente verso i rifugiati: è anche il continente che ne produce di più. Accresciuto nel corso del 2017 dalla crisi della Repubblica democratica del Congo e dalla guerra civile in Sud Sudan, il loro numero non fa che aumentare, del resto non solo in Africa, ma anche in altre parti del pianeta. Basta pensare ai Rohingya della Birmania, che per sfuggire alle persecuzioni si sono rovesciati a centinaia di migliaia in Bangladesh. Per il quinto anno consecutivo i flussi di profughi si sono gonfiati, e altri se ne sono aggiunti raggiungendo la cifra di 68 milioni e 500 mila persone. Un record assoluto nella storia del mondo.

Anche se 5 milioni hanno potuto fare ritorno ai loro luoghi di origine, ben 16 milioni e 200 mila hanno dovuto mettersi in cammino abbandonando le case e quasi tutti i loro averi. Il Paese che ne produce di più è la Siria, 6 milioni e mezzo di persone. Viviamo in un mondo di uomini, donne, bambini – moltissimi bambini – in fuga. Questo ci dicono i dati, che comprendono i rifugiati veri e propri, i richiedenti asilo e gli sfollati interni, contenuti nell’ultimo rapporto Global Trends dell’Alto Commissariato Onu (http://www.unhcr.org/statistics/unhcrstats/5b27be547/unhcr-global-trends-2017.html).

Il rapporto, che è stato diffuso in giugno e contiene i dati del 2017, smentisce molti luoghi comuni e percezioni sbagliate. No, la stragrande maggioranza dei profughi non è ospitata nei Paesi ricchi d’Europa o d’America: l’85 per cento rimane accampata in Paesi in via di sviluppo a basso o bassissimo reddito. No, non siamo noi i più accoglienti: il Paese che ne ospita di più è la Turchia, 3 milioni e mezzo di persone. Il primo Paese europeo della classifica, la Germania, è solo quinto con 970 mila persone. E il Libano, come accade da moltissimi anni, è quello che ne ha il maggior numero in rapporto alla sua popolazione: uno ogni 4 abitanti.

Quando l’Alto Commissariato per i Rifugiati fu istituito dalle Nazioni Unite alla fine degli anni 40 del secolo scorso, il suo mandato sarebbe dovuto scadere dopo tre anni. Il suo compito era di provvedere alla sistemazione della lunga scia di profughi e sfollati che si era lasciato dietro il Secondo conflitto mondiale. Una questione europea (dei palestinesi si doveva occupare un organismo creato ad hoc). Ma le emergenze presero a moltiplicarsi nei contesti più imprevisti. È chiaro da decenni che il problema è infinito e riguarda l’intero pianeta. L’italiano Filippo Grandi, che guida l’agenzia, torna a chiedere «un approccio molto più globale affinché i singoli Paesi e le singole comunità non siano lasciate sole ad affrontarlo». È gran tempo.

Un rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale alcuni mesi fa (http://www.worldbank.org/en/news/infographic/2018/03/19/groundswell---preparing-for-internal-climate-migration) annuncia imminenti e catastrofici spostamenti di popolazione dovuti al cambiamento climatico. I raccolti insufficienti, la mancanza d’acqua, l’alzarsi del livello dei mari costringeranno decine di milioni di persone tra le più povere della Terra a mettersi in movimento. Quasi 150 milioni, di qui al 2050, di cui 86 milioni in Africa e il resto in Asia e America Latina. Solo agendo subito contro il riscaldamento globale, ammonisce la BM, l’onda può essere fermata. Altrimenti il mondo rischia di esserne travolto.