Un mondo alla rovescia

Pechino approfitta delle Olimpiadi per affermare la sua superiorità sull’Occidente, anche sul fronte ideologico
/ 14.02.2022
di Federico Rampini

Con le sue Olimpiadi invernali la Cina si è proposta come il centro di un universo alternativo. È un mondo rovesciato rispetto alle rappresentazioni occidentali. Cominciando dallo sport. Lo scandalo dell’aggressione sessuale alla tennista Peng Shuai da parte di un ex vicepremier – che ebbe una visibilità brevissima sui social media cinesi – è stato cancellato dalla stessa protagonista che si è presentata ai capi del comitato olimpico per fare una penosa retromarcia: quello scandalo non è mai esistito. Per l’opinione pubblica cinese l’attenzione si era già spostata da tempo su una nuova eroina nazionale, la sciatrice adolescente Eileen Gu. Il fascino della sua storia è questo: Gu, diciottenne, è nata a San Francisco ed è sulle montagne tra la California e il Nevada che ha iniziato la sua splendida carriera nella specialità del trampolino acrobatico o freestyle. Di recente però ha scelto di competere per la Nazione di sua madre, che è cinese. Il suo «patriottismo Han» riempie di orgoglio i connazionali. È il simbolo di una diaspora cinese che sente di appartenere alla superpotenza in ascesa.

Sul fronte geopolitico, Vladimir Putin è andato a Pechino per omaggiare Xi Jinping (nella foto insieme alla moglie), che lo ha trattato come l’ospite d’onore. Questo significa che il leader russo quasi sicuramente rispetterà la tregua olimpica, astenendosi da mosse militari in Ucraina almeno fino alla fine di questi Giochi. Se l’Europa e gli Usa possono guadagnare tempo, lo si deve al calendario cinese. Anche questo viene presentato come un segnale simbolico che il centro del mondo si sta spostando. La Russia non ebbe altrettanti riguardi nel 2008 quando «sporcò» l’inaugurazione delle Olimpiadi estive di Pechino con il conflitto in Georgia.

Una volta che la tregua olimpica sarà conclusa, Putin sa che a fronte di eventuali sanzioni occidentali avrebbe un rifugio. Cina e Russia stanno costruendo un sistema finanziario alternativo a quello imperniato sul dollaro. L’uso del renminbi cinese continua a crescere, nelle transazioni commerciali con tutti i partner della Repubblica popolare. Altri Paesi, dall’Iran al Venezuela, hanno già dimostrato di poter attutire l’impatto delle sanzioni americane spostandosi verso il nuovo mondo che ha il suo centro a Pechino. La diplomazia cinese appoggia le rivendicazioni russe. Xi si allinea con Putin nel richiedere che la Nato rinunci a ogni futura espansione. Le due potenze hanno appena condotto manovre navali congiunte al largo del Giappone, un alleato americano. I sorvoli di cacciabombardieri cinesi sui cieli di Taiwan sono sempre più numerosi: l’Ucraina diventa un test per la futura annessione dell’isola alla Cina. Qualunque sia la tabella di marcia di Xi per estendere la sfera d’influenza cinese, ogni crisi che assorbe energie americane e distoglie l’attenzione di Washington da lui è benvenuta.

Xi ha approfittato dei Giochi per un discorso ideologico di alto profilo. Ha affermato che la vera democrazia è la sua, non la nostra. Ha coniato un nuovo slogan per descrivere il suo sistema politico: «Democrazia dal processo integrale, olistico». Sostiene cioè che la Repubblica popolare ha una democrazia partecipativa, mentre l’Occidente è fissato sul ciclo elettorale come se contasse solo quello. Xi confronta i due mondi sulla base della «performance», del risultato, che conta più del «processo» cioè del meccanismo elettorale. Per lui è evidente che la Cina è governata molto meglio, con effetti visibili sul benessere della popolazione, mentre l’America e l’Europa si avvitano in un caotico declino. Ora vuole portarci via anche l’ultima bandiera, il termine «democrazia». Non che corresse grandi rischi di vedersi guastare i Giochi dalle campagne sui diritti umani. Qualche Ong occidentale ha tentato invano di richiamare l’attenzione sugli abusi subiti dalle minoranze nello Xinjiang (uiguri musulmani) o nel Tibet, oppure sulla distruzione dello stato di diritto a Hong Kong. Sono voci nel deserto. Nessuno dei grandi sponsor occidentali ha ritirato il proprio marchio da questi Giochi.

Ma la battaglia per «azzerare il Covid» nasconde difficoltà reali per Xi, a cominciare dalla mediocre efficacia dei vaccini made in China, e dall’arretratezza del sistema sanitario, che non lasciano molte alternative al Paese: ogni focolaio di contagio, anche minuscolo, viene affrontato con restrizioni tremende. Per il secondo anno consecutivo una massa di migranti interni non ha potuto tornare nelle campagne a ricongiungersi con i familiari per le feste del Capodanno lunare. Questi controlli estremi in vigore da due anni offrono un effetto collaterale: il regime usa le app sanitarie per perfezionare il controllo digitale sulla popolazione e così intende «azzerare il dissenso».

È sempre rischioso prendere per buona la facciata esterna dei regimi autoritari. Censura e propaganda cinesi hanno raggiunto un’efficienza tecnologica notevoli, e gli intralci al lavoro della stampa internazionale riducono le fuoriuscite delle cattive notizie. I problemi dell’economia cinese sono notevoli: non riesce a emanciparsi dalla sua dipendenza dai mercati esteri, i consumi interni soffrono per il Covid, il settore immobiliare sprofonda sotto una montagna di debiti. Il fatto che la Germania stia scivolando verso una recessione è in parte legato alla debolezza del mercato cinese. Ma durante i Giochi la narrazione dominante ha fatto dimenticare queste ombre.

Dai Giochi estivi di Pechino nel 2008 alle Olimpiadi invernali del 2022: il confronto tra i due eventi a 14 anni di distanza rivela tutto ciò che è cambiato nel mondo. Quanto è diversa la Cina di oggi e la percezione che ne abbiamo noi. Quanto è più debole l’Occidente, che diffida di Xi Jinping ma si rivela incapace di ridurre la propria dipendenza dal made in China. Qualche coincidenza è emblematica. I Giochi del 2008 si aprivano mentre l’America stava per sprofondare nella crisi dei mutui, un tornante decisivo del suo declino. Ai Giochi del 2008, che seguii come corrispondente da Pechino, «scoprivamo» la nuova superpotenza in tutto il suo fulgore, e per rendersi bella la capitale aveva chiamato archistar internazionali a costruire edifici spettacolari. Il capitalismo occidentale era in piena luna di miele con la «fabbrica del pianeta», dove oltretutto riusciva a delocalizzare le produzioni più inquinanti. In particolare la simbiosi tra l’economia Usa e quella cinese sembrava perfetta, una complementarietà armoniosa. Nell’establishment Usa molti teorizzavano che a furia di arricchirsi i cinesi sarebbero diventati proprio come noi: più liberi, più democratici. La crisi dei mutui fece esplodere contraddizioni enormi dentro gli Stati Uniti: consentì l’elezione di Barack Obama ma alimentò una rabbia operaia contro i danni della globalizzazione, che ci avrebbe dato Donald Trump.

La Cina fu l’unica grande economia a salvarsi, usando dirigismo e capitalismo di Stato. Risale al 2008 una sorta di «epifania cinese»: la rivelazione di tutte le fragilità occidentali agli occhi della dirigenza comunista. Cominciò a manifestarsi un complesso di superiorità e l’ascesa dell’autocrate Xi Jinping dal 2012 ha confermato una classe dirigente sempre più sicura di sé. È nata nella diplomazia cinese la generazione dei «guerrieri lupo», con un linguaggio nazionalista e bellicoso che spazza via le cautele tradizionali. Dalle Nuove vie della seta all’espansionismo anche militare in Asia e in Africa, un progetto egemonico ha preso corpo in questi 14 anni.