Un modello per un Paese in ginocchio

La vittoria degli azzurri ai campionati europei di calcio ridesta lo spirito di appartenenza di un popolo duramente colpito dalla pandemia. Non è la prima volta che questo sport lenisce le piaghe della società italiana
/ 19.07.2021
di Alfredo Venturi

Tradizionalmente incline alla retorica, la stampa sportiva non lesina iperboli e superlativi nei suoi commenti al successo della squadra nazionale italiana nel campionato europeo di calcio. Si sparano titoli magniloquenti: «Eroici», «Un’Italia d’oro», «Siamo solo noi». E anche: «L’ora che fa la storia». Ma c’è anche chi ricorre al sarcasmo e all’ironia, per esempio prendendosi gioco dell’ostentata sicurezza inglese: it’s coming home, dicevano oltre Manica riferendosi al trofeo continentale, verrà a casa. Ma nell’irridente interpretazione italiana home è diventata Rome.

Eppure oltre l’enfasi c’è qualcosa di nuovo e di diverso in quello che il quotidiano parigino «Le Figaro» chiama «il capolavoro della rinascita italiana». Una sorta di mutazione antropologica: che cosa ne è della vecchia tradizione difensivista, degli «abatini» che, secondo Gianni Brera, le diete ipocaloriche e ipoproteiche dei loro antenati e dunque la loro insufficiente consistenza fisica condannavano a trincerarsi dietro il «catenaccio»? Quella messa in campo dal selezionatore Roberto Mancini è una squadra tonica, assertiva, potente. E proprio questo la rende un’icona e un modello per una società così duramente provata dalla pandemia. In qualche modo questa squadra rappresenta l’unità nazionale in positivo contrasto con quella esperienza così divisiva. «Avete rafforzato il senso di appartenenza all’Italia»: così ha detto ai vincitori il presidente del consiglio Mario Draghi, felice per l’evento che fra l’altro non mancherà, assicurano i commentatori delle patrie vicende, di accrescere ulteriormente il suo prestigio in Europa.

Ci voleva proprio, per il Paese che aspetta trepidante il suo rilancio, l’esemplare comportamento di questo gruppo di giovanissimi, a parte i due più attempati guerrieri posti di sentinella davanti al prodigioso portiere ventiduenne, che ha vinto l’uno dopo l’altro i sette incontri della fase finale del torneo. Ci voleva, dopo la prova ingrata della pandemia e della sua gestione incerta e caotica, questo esempio di accurata organizzazione, di collaudato lavoro d’équipe. Ha fatto ricomparire i tricolori nelle strade e nelle piazze, a rappresentare plasticamente l’unità del Paese miracolosamente ritrovata. La stampa di solito politicamente ostile rende omaggio al presidente Sergio Mattarella, al composto entusiasmo che il primo tifoso d’Italia, presente a Wembley, ha saputo esprimere quando la squadra ha annullato il vantaggio degli avversari proiettando la gara verso i tempi supplementari e i calci di rigore.

Dopo il tripudio londinese abbiamo dunque rivisto le stesse bandiere che sventolavano un anno e mezzo fa sui balconi dell’Italia sequestrata in casa, prima che il maldestro pilotaggio dell’emergenza sanitaria provocasse una crisi di rigetto. Ogni diffusa emozione popolare tende a riproporre le grandi questioni politiche e sociali. Per questo abbiamo visto sventolare i tricolori non soltanto nelle piazze italiane, ma anche in Scozia e a Bruxelles. Il tifo scozzese, non tanto filo-italiano quanto anti-inglese, così efficacemente espresso dal quotidiano indipendentista «The National», che alla vigilia della finale ha rappresentato in prima pagina Mancini nelle vesti di un highlander: salvaci tu dalla tracotanza inglese! E i tricolori che hanno invaso Bruxelles, il quartiere europeo compatto a celebrare la vittoria italiana su chi ha voltato le spalle all’Europa, una vittoria che ha realizzato una sorta di nemesi storica della Brexit. Festa grande anche nel Canton Ticino, dove i vincoli linguistico, culturale e non solo con l’Italia è più tenace di certi pregiudizi. Eppure Belgio e Svizzera sono fra gli ostacoli che la squadra azzurra ha dovuto superare nel suo percorso verso la prova finale.

Del resto non è la prima volta che il calcio lenisce le piaghe della società italiana. Accadde già nel 1982, quando la squadra azzurra vinse i mondiali in Spagna, e ancora nel 2006, quando trionfò in quelli di Germania. Nel primo caso il Paese stava cercando faticosamente di uscire dagli anni di piombo del terrorismo, nel secondo era alla vigilia di gravi emergenze economiche e finanziarie. Ogni volta sono stati presenti alla gara finale, a rappresentare il Paese stretto attorno ai suoi campioni, i presidenti della Repubblica di turno: nel 1982 Sandro Pertini, nel 2006 Giorgio Napolitano e ora Mattarella, che come i suoi predecessori all’indomani di Wembley ha ricevuto i vincitori al Quirinale assieme al tennista Matteo Berrettini, il primo italiano a disputare la finale del prestigiosissimo torneo di Wimbledon, ancora a Londra!

Dopo il trionfo calcistico di quindici anni fa c’è stato un lungo periodo di declino, la blasonatissima nazionale dei quattro titoli mondiali è scivolata sempre più in basso fino alla mancata qualificazione del 2018. E finalmente, grazie al talento organizzativo di Mancini, alla sua capacità di persuasione psicologica, all’intatta energia dei suoi ragazzi, la fantastica risalita culminata nella vittoria europea, che nel sentire comune dovrebbe insieme simboleggiare e stimolare la risalita del Paese. Speriamo che il simbolo e lo stimolo producano i loro effetti, tutto questo non può limitarsi a durare lo spazio di un mattino, è un’occasione che l’Italia non può permettersi di perdere. In fondo, se scriviamo con l’iniziale maiuscola la renaissance di cui parla «Le Figaro», la rinascita diventa Rinascimento. E se questa è un’illusione, perché non lasciarsene cullare finché è ancora possibile, sull’onda del fresco ricordo dell’impresa di Wembley?