La vera Etiopia la si scopre lasciando la capitale, i suoi grattacieli in costruzione, i suoi ingorghi e il suo smog. L’Onu ha la maggiore sede africana a Addis Abeba, ma se i funzionari internazionali restano lì hanno una visione parziale. Prendere un volo fino a Bahir Dar, spingersi su strade sterrate fino alla regione di Gumuz, uno dei vasti altipiani etiopi, offre una prospettiva diversa. Una puntata nelle zone rurali ridimensiona un po’ l’entusiasmo per il «miracolo etiope», pubblicizzato nel mondo dal premier-celebrity Abiy. Un’ora di strada asfaltata da Bahir Dar, due di strada sterrata (impraticabile nella stagione delle pioggie), un’ora finale di arrampicata a piedi, e si raggiunge un polo estremo, l’opposto di Addis Abeba.
Lungo il percorso incrocio bambine e bambini che trasportano sulle spalle taniche d’acqua o canne da zucchero o cesti pieni di cipolle, camminando nella polvere per tragitti lunghissimi. Altri bambini lavorano nei campi coi genitori, la schiena piegata in due. I contadini usano aratri di legno come mille anni fa; non hanno mai visto un trattore. Carretti trainati a mano, al massimo da un asinello. Pastorelli sorvegliano mandrie di mucche «indiane» (la razza con la gobba), magre quanto i loro padroni.Arrivo in cima a una collina abitata da etnìe tribali di origine sudanese, e i segni di una povertà estrema sono evidenti. Non la fame, perché la terra è fertile e i contadini non mancano di cibo. Però nella folla di bambini che accorrono a osservare i visitatori bianchi si notano delle pance gonfie (infezioni da vermi intestinali, dice un esperto che mi accompagna), e occhi malati.
La distanza che abbiamo percorso è una barriera tremenda per chi ha bisogno di raggiungere un ambulatorio; o una scuola. Né si trovano insegnanti disposti a un simile pendolarismo per il magro stipendio statale. La gente di qui – e in molte altre regioni rurali che ho attraversato – abita ancora nei tradizionali tucùl: muri di terra e sterco, tetti di paglia.Il bestiame dorme insieme agli umani. Entrando in uno di questi tucùl la prima impressione è di una camera a gas: il fuoco è perennemente acceso, per scaldarsi di notte e anche bruciare erbe aromatiche che scacciano zanzare da malaria, zecche e altri insetti micidiali. Gli incendi sono frequenti; anche le malattie polmonari, per chi respira tanto fumo. L’elemosina, o il regalo, che i bimbi di qui ci chiedono più spesso, è una penna biro. Nella cittadina di Bahir Dar incontro un medico inglese, David, venuto a lavorare come volontario nel policlinico «universitario» aperto da poco – appena il secondo ospedale in un’area che ha 15 milioni di abitanti – ma ancora sprovvisto delle attrezzature più essenziali.
È un ortopedico ma gli capita di dover operare feriti da armi da fuoco, arrivano da zone di combattimento, dove le faide etniche non sono sopite.L’Etiopia ha una buona fama di questi tempi perché è un’oasi di stabilità politica e di riforme, circondata da vicini tragicamente turbolenti o repressivi: Sudan, Eritrea, Somalia. Ma il modello etiopico, come mi spiega un esule eritreo consulente dell’Onu, poggia su un equilibrio fragile. È una federazione etnica dove i ricordi delle oppressioni reciproche sono ancora freschi, ferite aperte. Storicamente la minoranza Tigray ha controllato il potere e le armi, gli Ahmari dominano l’economia, mentre la maggioranza Oromo solo di recente ha conquistato il governo con Abiy. Ce ne sono altri 80 di gruppi etnici e almeno quattro comunità religiose: ortodossi, musulmani, protestanti e cattolici nell’ordine di grandezza.L’idea di Stato è ancora un’astrazione, esercito e polizie federali sono milizie dei movimenti di liberazione etnici, riconvertite di recente.
Il contesto internazionale non aiuta: la Russia «perse» l’Etiopia con la caduta del dittatore comunista Mengistu (1991); l’Occidente simpatizza con Abyi ma scommette pochi capitali su di lui; la vera contesa per l’egemonia qui è tra la Cina e l’Arabia saudita. Pechino costruisce infrastrutture; gli arabi edificano moschee e attraverso l’importazione di manodopera etiope (soprattutto colf) operano una islamizzazione strisciante (per lavorare sull’altra sponda del Mar Rosso conviene adattarsi ai costumi locali).Se confrontata con la maggioranza dei paesi subsahariani l’Etiopia è un modello avanzato, quasi un’oasi felice, per varie ragioni. Tutte un po’ precarie. È il granaio d’Africa, una vera potenza agricola col più grande patrimonio di bestiame di tutto il continente, di che sfamare i suoi abitanti ed anche esportare. Ma fu teatro di carestie storiche, due delle quali contribuirono alla caduta dei due ultimi regimi (Haile Selassie, Mengistu). Quella del 1973, che fece duecentomila morti finché Selassie riuscì a nasconderla, contribuì alla «cultura degli aiuti» in Occidente, i cui errori sono stati analizzati con severità dalla economista Dambisa Moyo dello Zambia (La carità che uccide, Rizzoli, 2011).
Com’è possibile morire di fame in una nazione così fertile, con tanti laghi e fiumi? L’eccessivo sviluppo degli allevamenti ha contribuito all’erosione dei terreni. La parcellizzazione delle terre non incentiva gli investimenti in tecnologie. L’industria agroalimentare è quasi inesistente: rara eccezione è Illycaffè che ha costruito un rapporto con contadini e imprenditori locali, la famiglia di Ali e Ahmed Legesse a Sidamo. La mancanza di infrastrutture e la politica – il prestigio dei dittatori, le contese etniche – hanno rallentato l’arrivo di aiuti quando alcune regioni erano colpite da siccità. L’altitudine di gran parte del suo territorio la protegge anche da molti flagelli tropicali-equatoriali; purtroppo solo in parte. C’è meno malaria, febbre gialla e tifo che in altri paesi africani. Ma queste malattie non sono del tutto debellate. Altre sono endemiche per la mancanza di acqua potabile, le fognature a cielo aperto. La mortalità infantile elevata (che riduce la longevità media poco sopra i cinquant’anni) si spiega con l’assenza di un’igiene basilare.
L’acqua pulita resta un bene irraggiungibile in campagna. Risorsa preziosa, l’acqua non serve solo per bere e lavarsi: è la più grande fonte d’energia. La Salini-Impregilo sta costruendo la quarta grande diga nazionale, e sta ultimando quella che viene definita la Diga della Rinascita. Egitto e Sudan seguono con preoccupazione questi progetti con cui l’Etiopia controlla a monte il flusso del Nilo Azzurro. L’astuto Abiy è andato al Cairo a garantire che esporterà energia anche ai paesi vicini. Eppure l’elettricità non basta nemmeno all’Etiopia: i blackout sono continui.Alla mia partenza, l’aeroporto internazionale di Addis Abeba mi consegna un’ultima immagine di questo Paese: il terminal è invaso da cinesi, sembra di essere allo scalo di Shanghai. Dambisa Moyo sostiene che dagli anni Sessanta ogni decennio ha visto una nuova «teoria» su come innescare uno sviluppo durevole dell’Africa. Stiamo vivendo nel decennio della teoria cinese. Finirà meglio delle precedenti? Non è una domanda retorica né ironica. Avendoli visti al lavoro per asfaltare le strade verso Awassa, in una regione del caffè, ho rivalutato l’importanza dei loro investimenti: non sono solo predatori; anche se nella popolazione locale cresce la diffidenza.
Seconda nel continente per popolazione, e la più grossa economia di tutta l’Africa orientale, questa nazione dove il 70% degli abitanti ha meno di trent’anni, non crea posti di lavoro sufficienti per i suoi giovani. Mentre io ero in Etiopia il premier Abiy visitava Roma con proposte concrete: vorrebbe che fossero gli italiani a costruire la ferrovia di collegamento con il porto di Massawa in Eritrea. Se non si faranno avanti i nostri imprenditori, è probabile che sia questa la prossima grande infrastruttura «made in China». Per il momento i fondi italiani per la cooperazione, 120 milioni in tre anni destinati all’Etiopia, sono briciole al confronto degli investimenti cinesi, e non solo quelli.Il fenomeno dell’invasione cinese è risaputo, ma spesso evocato in modo generico, senza conoscenza di causa. Vederlo da vicino è un’altra cosa. Le sorprese sono tante. Io cominciai a seguirlo dall’altro versante, il Paese invasore. Quando mi trasferii in Cina quindici anni fa la strategia africana era già conclamata. Nei cinque anni della mia vita a Pechino, puntualmente una volta all’anno la capitale ospitava un supervertice sino-africano.
Arrivavano capi di Stato da tutto il continente nero, gli ingorghi stradali diventavano ancora più tremendi, Piazza Tienanmen si affollava di bandiere nuove. Cifre già allora ragguardevoli sugli investimenti cinesi, i mega-contratti firmati, venivano annunciate con orgoglio.La strategia africana venne esaltata da un progetto ancora più ambizioso, le Nuove Vie della Seta. Il XXI secolo doveva essere il «secolo cinese». Un modo per irradiare l’influenza della nuova superpotenza era costruire una rete globale di autostrade e ferrovie, porti e aeroporti, centrali elettriche, linee telecom. Cominciarono le prime resistenze verso i nuovi colonizzatori, per esempio gli scioperi dei minatori di rame dello Zambia contro i padroni venuti dall’Estremo Oriente. Si scoprì anche che la generosità di Pechino ha i suoi limiti: molte grandi opere sono finanziate da prestiti e la Repubblica Popolare esporta anche debito pubblico. L’invasione però procede implacabile: in molti paesi africani, il rapporto tra gli investimenti cinesi e quelli occidentali è dieci a uno.Ma i grandi accordi governativi, fra il regime comunista cinese e gli autocrati africani, sono solo una parte di questa storia. Ce n’è un’altra, meno nota, più sorprendente. Pochi l’hanno vista e raccontata, uno è un collega americano, Howard French, che è stato corrispondente a Pechino e poi in Africa.
È la storia di un’invasione dal basso, spontanea e privata. Almeno un milione di piccoli imprenditori cinesi, commercianti, intermediari, o avventurieri in cerca di fortuna, sono emigrati in Africa in cerca del loro Nuovo Mondo; senza chiedere permessi al proprio governo né ricevere istruzioni o aiuti. Un esodo biblico ispirato talvolta da insoddisfazione verso la Cina stessa. È una specie di nuova «conquista del West», perché questa fauna umana riproduce la mentalità di certi coloni bianchi quando traversarono l’America.La loro interazione con la popolazione locale, è molto più ravvicinata e intensa, rispetto agli eserciti di manager e tecnici delle grandi aziende di Stato cinesi che vanno a costruire strade e grattacieli. Il ragazzino cinese sperduto in una classe di scuola materna dell’Etiopia rurale e povera, mandato dai suoi genitori a studiare l’amarico invece del mandarino, è la cavia di un nuovo esperimento gigantesco di mescolanza etnica, incontro-scontro fra civiltà, come all’epoca dello Scambio Colombiano che aprì mezzo millennio di egemonia dell’Occidente.
Perché l’Italia – e l’Europa, l’Occidente intero – ha interesse nel successo di Abiy? Che cos’ha fatto di eccezionale per essere diventato il leader africano del 2018, con «The Economist» che assegna all’Etiopia il ruolo di «speranza dell’Africa»? In politica estera ha firmato la pace con l’Eritrea ponendo fine a un conflitto ventennale. Ha disteso le relazioni con tutti i vicini e negozia collegamenti portuali a Gibuti. All’interno ha liberato prigionieri politici, ha allacciato il dialogo con gli oppositori in esilio, alcuni dei quali sono rientrati. Ha favorito l’ascesa di donne ai vertici: la prima presidente della Repubblica di tutta l’Africa, la prima presidente della Corte costituzionale. Non è poco, e si può aggiungere il suo talento di comunicatore. È un volto fresco e accattivante in un continente dove ancora dominano tanti gerontocrati tirannici. Nell’elenco delle promesse ci sono la liberalizzazione della stampa, le privatizzazioni (parziali) dei monopoli di Stato, e l’organizzazione di libere elezioni nel 2020. Qui è ragionevole essere scettici. Non esiste una vera democrazia pluralista, la stampa e Internet sono ancora controllati.
La politica è ingessata dentro le organizzazioni del Fronte Rivoluzionario che rovesciò la dittatura militare di Mengistu nel 1991. Soprattutto, la vita politica si svolge dentro la gabbia rigida del «federalismo etnico», che non ha affatto risolto le tensioni e eccita conflitti con centinaia di morti all’anno, soprattutto per la proprietà della terra: lo Stato rimane il proprietario di ultima istanza, ai contadini concede contratti di affitto di lunga durata, ma con delle precise assegnazioni etniche. Spesso è questa la scintilla che riaccende esplosioni di violenza. A cui l’esercito risponde con repressioni, limitate ma sanguinose. Durante il mio viaggio ci sono stati bombardamenti nella regione degli Oromo. La stessa pace con l’Eritrea – dittatura così feroce da essere paragonata alla Corea del Nord – rischia di essere solo un espediente tattico per l’ostilità comune verso il movimento Tigray.Nonostante i limiti di Abiy, un suo fallimento potrebbe essere fatale, per tante ragioni. L’Etiopia è l’unica grande nazione a maggioranza cristiana, circondata da forze islamiste che hanno disegni espansionisti. L’Etiopia ospita quasi un milione di profughi tra sudanesi, eritrei, somali. Nonostante i suoi problemi interni in questo momento ha una funzione stabilizzatrice per il Corno d’Africa.
Se dovesse implodere il miracolo etiope, le conseguenze si sentirebbero in tutte le direzioni, inclusi i flussi migratori. Il giorno in cui non fosse più l’Etiopia a trattenere i profughi dai paesi limitrofi, si può immaginare quali direzioni prenderebbero. È singolare, o no, che «aiutarli a casa loro» sia diventato sinonimo di egoismo? E quando l’ultimo medico etiope avrà lasciato il suo Paese per andare a guadagnare di più all’estero, continueremo a definire «generosa» la nostra accoglienza?