Un «Messias» a Brasilia

Brasile – Con la sua retorica nazionalista e incendiaria, che s’ispira al presidente americano Trump, Jair Bolsonaro, candidato di estrema destra, ha trionfato nel primo turno delle elezioni
/ 15.10.2018
di Angela Nocioni

Saranno poche migliaia di voti a decidere, al ballottaggio del 28 ottobre in Brasile, se sarà l’ex militare d’estrema destra Jair Messias Bolsonaro, 46,5% al primo turno, il prossimo presidente della quarta democrazia del mondo.

Con lo slogan «lui no, il fascismo mai» Ciro Gomes (del Pdt, centrosinistra, arrivato terzo con il 12,5%) l’avvocato che fu ministro dell’Integrazione del governo Lula e che ha corso per suo conto domenica presentandosi come alternativa possibile tanto alla sinistra del Partito dei lavoratori (Pt), travolta da una serie di inchieste sulla corruzione e il finanziamento illecito alle campagne elettorali, quanto ai nostalgici dell’ordine garantito dai militari rappresentato da Bolsonaro, ha chiesto ai suoi elettori di votare il candidato di Lula, Fernando Haddad, l’ex sindaco paulista del Partito dei lavoratori arrivato secondo (29,5%) a 17 punti percentuali da Bolsonaro.

I sondaggi per il ballottaggio danno Bolsonaro al 45% e Haddad al 43%. Nella storia brasiliana il secondo turno non ha mai rovesciato il risultato del primo. A far crescere l’onda che spinge in avanti l’ex colonnello, nel tentativo di raggiungere la presidenza ormai a portata di mano, ci sta pensando la destra profonda ed estrema che esiste in Brasile, sopravvissuta alla fine della dittatura, che mal ha sopportato negli ultimi trent’anni il costruirsi di una società democratica e ora finalmente può sorridere appagata quando sente Bolsonaro dire che «i negri non vanno bene nemmeno per la riproduzione».

Rendere presentabile Bolsonaro nei salotti buoni della finanza, non costringere chi ha interesse a votarlo a doversene vergognare, è compito del ministro dell’Economia in pectore, Paolo Guedes, economista sessantottenne, con un’infarinatura di Chicago University. È stato assunto apposta per far da ponte tra Bolsonaro, gli industriali paulisti e il grande potere agrario.

Appena alla fine di settembre, i sondaggi sulle intenzioni di voto al primo turno hanno fatto balzare l’ex colonnello sopra il 30% (il consenso nei suoi confronti è stato molto sottostimato fino alla vigilia del voto) gran parte dell’establishment brasiliano ha superato l’imbarazzo e ha spalancato le braccia al candidato dell’ultradestra in volata. Cominciando dai latifondisti, i quali peraltro non sono mai stati danneggiati nei loro interessi dai governi della sinistra che, già dal primo governo Lula nel 2003 fino all’ultimo governo di Dilma Rousseff fatto cadere due estati fa con un impeachment del tutto illegittimo, sono stati molto accorti nel non infastidire i grandi ricchi riuscendo a tirar fuori i soldi per le vaste politiche sociali realizzate dall’aumento dei profitti di un momento di miracoloso ma fugace boom dell’esportazioni. Quell’area di ultradestra, nonostante non abbia perso privilegi economici, ha comunque concepito un odio profondo nei confronti della sinistra al potere che sul piano concreto e simbolico dell’integrazione sociale ha rivoluzionato il senso comune nazionale. Basti pensare alle quote riservate ai neri nelle università o alla tutela dei diritti di chi fa lavori domestici: norme che la parte profondamente razzista del Brasile che pure esiste, persone davvero convinte di poter trattare i propri camerieri un po’ peggio dei propri cani da guardia, non ha mai perdonato all’era del lulismo al potere.

L’ex colonnello Bolsonaro (alcune sue frasi «polizia buona è solo la polizia che uccide», «accetto il risultato delle elezioni solo se vinco io», «una figlia femmina è solo la punizione per una disattenzione») incassa l’appoggio discreto del mondo finanziario paulista e lo scatenarsi in suo favore di quello che in Brasile si chiama «il partito Bibbia, vacche e pallottole», la potentissima lobby degli evangelici (un brasiliano su quattro è fedele a una chiesa evangelica) sommata a quelle dei latifondisti e dei militari, questi ultimi mai tanto attivi in politica dalla fine della dittatura nel 1985.

L’ex presidente Lula da Silva, detenuto nel carcere di Curitiba, ancora a capo del Partito dei lavoratori e sostituito all’ultimo minuto nella corsa alle presidenziali da Haddad dopo essere stato dichiarato incandidabile dal Tribunale supremo perché condannato in appello al 12 anni per corruzione e lavaggio di denaro, punta a far recuperare al suo malconcio partito consensi da quel 20% di astensione che, se riassorbito, deciderà l’esito del ballottaggio. Fondamentale sarà anche la scelta degli elettori del Psdb, il partito liberal dell’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, storicamente molto più numerosi del misero 4,76% raccolto dal candidato Geraldo Alckmin.

Bolsonaro, 63 anni, non è un outsider. Cacciato dall’esercito per «episodi di insubordinazione e eccesso di aggressività», negli ultimi 28 anni è stato deputato federale a Rio de Janeiro (il Brasile ha una struttura federale) per il Partito social liberale, un partito di estrema destra in mano agli evangelici che hanno messo a disposizione dell’ex colonnello i loro 199 deputati e 4 senatori oltre alla Record tv, canale del fondatore della Chiesa universale del regno di Dio, Edir Macedo. Da lì Bolsonaro ha tenuto comizi in solitaria, senza contradditorio possibile, rifiutando il confronto televisivo con gli altri candidati. I principali pastori evangelici brasiliani, personaggi potentissimi che hanno visto inginocchiarsi di fronte a loro tutti i principali leader politici in cerca di voti inclusa l’ex presidente del Partito dei lavoratori Dilma Rousseff poco prima della sua rielezione, sono stati finora i suoi più efficienti luogotenenti. «Perché mai non dovremmo appoggiarlo se ha l’agenda politica che noi difendiamo – diceva giorni fa Silos Malafaia, uno dei leaderini della Assemblea di Dio, altra congregazione evangelica – è stata la sinistra brasiliana a sostenenere in questi anni la spazzatura morale che abbiamo visto qua, addirittura un bacio gay nella telenovela delle sei del pomeriggio!».

Una agenda politica in realtà Bolsonaro non s’è dato la pena di procurarsela, non ne aveva bisogno. I suoi elettori non gli chiedono di averla. La sua è stata ed è una candidatura «contro». Contro Lula, anche se in galera. Contro la crisi economica. Contro tutto quello che poteva essere spacciato per una delle conseguenze negative delle politiche degli ultimi governi della sinistra. In questo è stato provvidenzialmente aiutato dalla brutta coltellata rifilatagli durante un bagno di folla. Ferita profonda, ma non letale. Ciò gli ha permesso di non fare campagna elettorale, ottima opportunità per un candidato senza programma. I suoi voti se li è rastrellati con una efficientissima pioggia di notizie false diffuse via social. Il suo principale strumento è stato Whatsapp, veicolo prezioso di persuasione politica in un Paese in gran parte a recente alfabetizzazione e in cui 6 persone su 10 sono attive nei social.

Come candidato vice, Bolsonaro ha scelto l’ex generale Hamilton Mourão, che ha più volte lodato la tortura e il golpe. Può contare sull’attivismo in suo favore di tutti quegli alti gradi militari riaffacciatisi in politica negli ultimi mesi. Su quello del generale Fernando Azevedo e Silva, per esempio, diventato suo stratega politico dopo essere stato nominato consigliere speciale del Tribunale supremo federale dal nuovo presidente, José Antonio Dias Toffoli. Lo stesso Toffoli ha detto di non sopportare la parola «golpe» riferita al colpo di stato del 1964 che instaurò la dittatura militare. Lui preferisce dire «movimento del ’64». Ha anche spiegato che, a suo parere, è scorretto «dare la responsabilità di quell’intervento militare ai militari». Perché la causa del loro «irrompere» andrebbe piuttosto fatta risalire «al conflitto politico tra la destra e la sinistra». Toffoli presiede dal mese scorso il più importante tribunale del Brasile.