Da un lato una certa aggressività economica da parte di paesi come la Cina nell’acquisire partecipazioni importanti in paesi industrializzati, dall’altra importanti riflessi di difesa da parte dei maggiori interessati evocano crescenti ostacoli al commercio internazionale. Tanto più che si aggiungono a denunce di accordi e a difese doganali che rischiano di avere un pericoloso effetto domino.
Come è messa la Svizzera in questo contesto internazionale, in particolare a riguardo delle partecipazioni internazionali al capitale di importanti aziende residenti? Una lucida risposta a questo interrogativo è data dal capo-economista del SECO Eric Scheidegger in un interessante articolo nella «Neue Zürcher Zeitung», nel quale ammonisce contro soluzioni semplicistiche che consistono nell’erigere barriere di protezione doganali.
Sull’esempio di Stati Uniti e Germania, anche in Svizzera alcuni politici vorrebbero proteggere le imprese interne, contrariamente comunque a parecchi paesi dell’OCSE, che cercano invece di attirare capitali dall’estero. In Svizzera circa 1 miliardo di franchi dei capitali delle aziende sono frutto di investimenti diretti dall’estero. Non solo, ma oggi circa l’80% delle azioni delle 30 maggiori aziende svizzere sono in mano estere. Infine, quasi mezzo milione di posti di lavoro sono creati in Svizzera da filiali di gruppi esteri.
Questi pochi dati potrebbero lasciar credere che investire in Svizzera dall’estero, oltre che molto attrattivo, possa essere anche molto facile. Ma non è così. Contrariamente a quanto vorrebbero alcuni atti parlamentari – che temono svendite di aziende all’estero – la Svizzera non ha un controllo sistematico sugli investimenti esteri, ma non mancano alcuni limiti per gli investitori. Per esempio, tramite la legge sui cartelli si ha un controllo sulle fusioni, per evitare ostacoli alla concorrenza in casi di acquisto di aziende. L’acquisto di partecipazioni in aziende quotate in borsa è regolato dal diritto in modo che le intenzioni siano chiare. Infine, dove vigono partecipazioni dello Stato il limite alle partecipazioni estere è regolato in modo assoluto.
Gli esempi classici sono la Posta, le Ferrovie, Swisscom, Ruag o Skyguide. Ma anche la Strade nazionali, che devono essere di proprietà della Confederazione, o l’infrastruttura ferroviaria che necessita di una concessione da parte della Confederazione. Dal canto suo, Swissgrid, la rete di distribuzione della corrente elettrica, deve appartenere in maggioranza a Cantoni e Comuni.
Alcune critiche al sistema attuale riguardano soprattutto le partecipazioni di Stati o partecipate estere, che potrebbero provocare, indirettamente, una statalizzazione all’estero di imprese private svizzere. I timori maggiori sono per l’interesse pubblico, che però in Svizzera sembra ben garantito dalle proprietà o dalle partecipazioni statali. Altri rimproverano a Stati esteri di acquistare partecipazioni in Svizzera, ma di non concedere diritti analoghi al loro interno. Se però – come visto – il capitale estero è benvenuto in Svizzera, la Svizzera può concedere un accesso unilaterale ai capitali aziendali dei suoi partner commerciali.
Infine, da qualche parte si teme che capitali esteri possano entrare in aziende svizzere con l’intenzione di poi trasferire nel paese di provenienza tecnologie e parti di produzioni acquisite in Svizzera. Esempi all’estero, anche in partecipate statali, mostrano che eventi simili non si sono mai verificati: grandi esempi significativi possono essere visti in aziende come Land Rover, Jaguar o Volvo.
In realtà il successo di un’impresa non è dato soltanto dalla tecnologia utilizzata, ma anche dal capitale umano dei suoi collaboratori, nonché dalla dinamica dei suoi processi di lavorazione, che potrebbero essere compromessi dall’eventuale perdita di «know-how». Cosa poco probabile, poiché l’impresa interessata dispone dei mezzi e dei tempi per mantenere i propri obiettivi di economicità.
L’autore dello scritto conclude la sua analisi dicendo che i controlli statali in questo campo sono ingannevoli, poiché perseguono obiettivi preconcetti. Essi creano soprattutto insicurezza presso gli investitori e spingono lo Stato a perseguire unicamente il proprio interesse politico e il protezionismo. Si ergono così barriere, e non solo alla libera circolazione dei capitali, motivandole con il fatto che anche altri paesi lo fanno. Al contrario, una politica protezionistica non ben ponderata e una regolamentazione invasiva nascondono il pericolo che il modello svizzero di successo, dipendente anche da un mercato dei capitali aperto, possa essere compromesso.