La Brexit e la coppia Harry-Meghan sono nate nello stesso periodo, settimana più settimana meno: 23 giugno 2016 la prima e, si dice, il 4 luglio dello stesso anno la seconda. Ma questi diciotto mesi sono stati usati in maniera molto diversa dai protagonisti delle due vicende, e se il principe dalla chioma rossa ha dimostrato fin dall’inizio che «Meghan vuol dire Meghan» e non ha perso tempo a chiedere all’attrice americana – divorziata, più grande di lui, con una madre afroamericana e una famiglia sgangherata – di sposarlo, l’annuncio della premier Theresa May che «Brexit vuol dire Brexit» è rimasto solo uno slogan vuoto, un grido di battaglia fintamente risoluto che non ha portato a niente fino ad ora. Né ad una strategia chiara per portare il Paese fuori dalla Ue, né ad un tentativo esplicito di contenere l’autolesionismo derivante da un quesito referendario vago e ambiguo.
La May sta agendo sottotraccia, avvalendosi di due grandi armi britanniche come l’understatement e l’ambiguità costruttiva per sventare i pericoli maggiori come la rottura del tavolo negoziale con Bruxelles, e per adesso, di crisi in crisi, è riuscita a resistere. Ma ora che dalla Ue i toni si sono fatti più pressanti, non bisogna essere eccessivamente maligni per pensare che Downing Street abbia sfruttato l’enorme distrazione mediatica proveniente dall’annuncio delle nozze di Harry e Meghan per lasciar trapelare la notizia che è stato raggiunto un accordo con Bruxelles sul più spinoso e simbolico dei punti negoziali: il conto da saldare al momento dell’uscita.
Accordo è una parola grossa: diciamo che Londra ha accettato le richieste dei partner europei, ammettendo di dovere 100 miliardi di euro per chiudere quarant’anni e passa di relazione. Nella pratica ne verserà circa la metà, in pagamenti distribuiti su quattro decenni. Ma 40 miliardi di sterline sono pur sempre il doppio dei 20 miliardi che la May aveva concesso nel suo discorso di Firenze e soprattutto sono un’enormità sia per chi pensa che la Brexit non abbia senso – quei soldi potrebbero andare alla sanità pubblica, ad esempio – sia per chi, in maniera diametralmente opposta, ritiene che il Regno Unito non debba niente a Bruxelles. L’ex leader Ukip Nigel Farage, che non ha più neppure un partito, ha scritto un editoriale spiegando che l’aver concesso tutti quei soldi a Bruxelles «unirà il Paese nel disgusto» e che questo dimostra che si sta andando verso un pessimo accordo, mentre il ministro degli Esteri Boris Johnson, che nonostante tutti i suoi errori e le sue gaffe continua ad essere al suo posto, ha usato una frase apparentemente conciliante per commentare la notizia. «Servirà a disincagliare la nave», ha spiegato Boris, accettando l’utilità della decisione ma mettendo al tempo stesso l’accento sulle secche negoziali dove il capitano May ha portato il Paese.
Secondo i sondaggi l’opinione pubblica starebbe cambiando piano piano idea rispetto alla Brexit – non tutti trovano che sia una buona idea passare due anni a discutere di questioni così tecniche tralasciando i grandi problemi del Paese – e sui media si moltiplicano gli articoli e gli appelli a favore di un ripensamento. Ma sia Boris Johnson che il ministro per l’Ambiente Michael Gove, meno carismatico ma percepito come più competente, continuano ad alimentare ad euroscetticismo le loro ambizioni politiche e a lusingare le classi popolari con le loro opinioni nette ed è per questo che la May ha disperatamente bisogno di quelle «armi di distrazione di massa» che facciano passare in secondo piano le questioni di lana caprina di cui chi voglia prendere la Brexit sul serio è costretto a discutere.
Tanto più che la notizia del matrimonio di Harry e Meghan ha implicazioni socio-culturali più complesse di quelle di un semplice «royal wedding» e, paradossalmente, trasmette un messaggio esattamente inverso rispetto a quello della Brexit: l’attrice nota per il suo ruolo nella serie Suits ha una madre nera e si definisce lei stessa «né bianca né nera», è una donna fatta e finita, di successo, con un divorzio alle spalle, e questo avvicina in modo rivoluzionario la monarchia britannica a quello che succede nelle strade del Regno Unito, dove le persone di razza mista sono il gruppo in più forte crescita da un punto di vista demografico. E pazienza che per portare questa ventata d’aria fresca ci sia voluta un’americana, un’immigrata che ha deciso che seguirà la procedura ufficiale, con tanto di esame, per avere la cittadinanza britannica.
Per restare in vita la famiglia reale sa di dover fare di tutto per non essere anacronistica, e l’aver aperto le porte ad una donna che sulla carta non ha nessuna delle caratteristiche che si immaginano proprie della promessa sposa del quinto in linea di successione al trono dimostra che la regina ha le idee molto chiare su come usare la fabbrica di simboli e icone di cui è a capo (sempre che qualcuno avesse qualche dubbio dopo averla vista con un cappellino blu violaceo con dei fiori gialli così simile alla bandiera europea): Meghan è impegnata politicamente, è progressista e contemporanea, spigliata e comunicativa. Harry pure. Non c’è altro da aggiungere, in un Paese che da un anno e mezzo a questa parte si sta chiudendo su se stesso alla velocità della luce.
Panem et circenses, dicevano i romani, ma nessuno sembra aver colto il concetto meglio dei britannici, che in questa fredda settimana di novembre hanno fatto in modo di mettere in secondo piano non solo le concessioni fatte a Bruxelles, ma anche la serie interminabile di passi falsi che il governo, spaccato fino al midollo come tutto il partito conservatore, sta facendo sulla gestione del dossier Brexit. Facendo bene attenzione a centellinare le notizie – prima il matrimonio e la stagione, poi la chiesa e il mese, ma non il giorno esatto – in modo da far sì che l’efficacia dell’annuncio sia protratta nel tempo. Perché la comunicazione è tutto. Per una conferma, basta chiedere a Meghan.