Joe Biden non diventa quell’anatra zoppa che si temeva e affronta gli impegni internazionali con una credibilità intatta, a cominciare dal G20 di Bali. Gli alleati dell’America nel mondo possono tirare un sospiro di sollievo: nel prossimo biennio non avranno a che fare con un’Amministrazione Usa dimezzata, e forse non dovranno interrogarsi sulle conseguenze di un possibile ritorno di Donald Trump. L’America rimane spaccata in due, ma questa è la sua geografia politica da generazioni; quindi se si vuol parlare di una «crisi della democrazia» bisogna ammettere che esisteva già negli anni Sessanta e Settanta. Una conseguenza immediata del voto per il Congresso e per 36 governatori, è che ha già aperto il capitolo successivo: la corsa alla Casa Bianca del 2024. Una campagna presidenziale che diventa sempre più lunga e quest’anno batterà un record. Con la decisione di Donald Trump di annunciare la sua ricandidatura il 15 novembre, e la contromossa di Biden che ha praticamente già confermato la propria, i tempi di queste discese in campo sono stati anticipati in modo inusuale. La democrazia americana non sarà moribonda come l’hanno descritta in modo strumentale Biden e Barack Obama nei comizi pre-elettorali; però è una democrazia che vive in una campagna elettorale permanente.
Alle elezioni legislative di midterm l’8 novembre non c’è stata la valanga repubblicana prevista dai sondaggi. La destra ha visto rafforzarsi la sua nuova star, Ron DeSantis, governatore della Florida. Si è già aperta la resa dei conti al suo interno, il vecchio establishment repubblicano accusa Trump: il mancato trionfo viene addebitato alla pessima qualità dei 200 «pasdaran del negazionismo» che lui ha sponsorizzato (dando i suoi endorsement solo a coloro che non riconoscono la legittima elezione di Biden nel 2020). La sfida tra DeSantis e Trump è nella logica dei fatti. Forse solo il governatore della Florida ha i numeri per epurare il Grand Old Party di un leader ingombrante e distruttivo. In quanto a carisma, DeSantis è scarso. I suoi numeri sono altri: nella crescita economica della Florida favorita anche dall’assenza di restrizioni durante la pandemia; nell’emigrazione interna da New York e dalla California alla Florida, non più solo pensionati in cerca di sgravi fiscali ma forza lavoro giovane attratta da un clima più favorevole alle start-up. Infine DeSantis ha le carte in regola su tutte le battaglie valoriali che compattano l’elettorato moderato-conservatore: in Florida ha contrastato la penetrazione della woke culture nelle scuole, ha vietato che si insegni l’identità sessuale fluida in quinta elementare o il «razzismo genetico» dei bianchi. Ha tolto i privilegi fiscali alla Disney che riscrive le fiabe perché eroine ed eroi siano solo gay e di colore. Non ha carisma, certo, però ha servito la patria in divisa sul fronte iracheno mentre Trump fece l’imboscato durante la guerra in Vietnam… Insomma, lo scontro tra i due promette bene.
Buone notizie per la continuità della politica estera Usa. Un trionfo dei candidati trumpiani avrebbe messo a repentaglio il consenso bipartisan sull’Ucraina. Questo risultato invece rafforza indirettamente il vecchio establishment repubblicano, atlantista doc. Un personaggio come il capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell, fu decisivo nel ratificare l’elezione di Biden nel fatidico 6 gennaio 2021. Oggi McConnell esce a testa alta da un’elezione che ha castigato Trump. McConnell ha sempre garantito voti repubblicani ai vari pacchetti di aiuti americani per Kiev. Sull’Ucraina dunque il risultato delle elezioni rafforza la previsione di Jake Sullivan, capo del National Security Council: il consenso bipartisan continuerà. Nel frattempo lo stesso Sullivan, reduce da un viaggio a Kiev, si era «giocato» lo spauracchio trumpiano con Zelensky e lo ha costretto a rinunciare alla pregiudiziale per cui il presidente ucraino escludeva un negoziato con Putin.
Sulla Cina non c’è mai stata una vera distanza fra le Amministrazioni Trump e Biden. Anzi Biden ha «studiato» il caso-Huawei, notando che le restrizioni imposte da Trump contro la vendita di tecnologia Usa al colosso cinese delle telecom hanno stoppato l’espansione globale di Huawei nel 5G. Biden ha esteso quella ricetta applicandola in modo più ampio e l’embargo tecnologico contro la Cina è diventato un asse portante della politica di questa Amministrazione. Ora, da un lato Biden si vede rafforzato perché l’ala tradizionalista del Grand Old Party, con un personaggio come il senatore Marco Rubio rieletto in Florida, abbonda di «falchi» sulla Cina. D’altro lato, avendo scongiurato una débacle elettorale, Biden ha una libertà di manovra che gli consente di incontrare Xi Jinping al G20 di Bali per negoziare una sorta di «mezza tregua». L’America e la Cina continueranno a trattarsi come delle antagoniste e rivali strategiche; ma potrebbero accordarsi su un modus vivendi che ripristini alcuni terreni di collaborazione e consultazione. I più urgenti sono due: la lotta al cambiamento climatico; e un meccanismo di consultazione tra alte sfere militari che cerchi di prevenire «un disastro ucraino a Taiwan». Quest’ultimo tema interessa il mondo intero e in particolare gli alleati americani in Asia: Giappone, Corea del Sud, Australia, ma anche Vietnam e Filippine. Si tratta di stabilire delle linee di comunicazione ad altissimo livello – come fu il telefono rosso Washington-Mosca nella prima guerra fredda – per evitare errori di calcolo, fraintendimenti dell’avversario, spirali di reazioni incontrollate che possono sfociare su un conflitto tragico tra superpotenze. Un Biden che esce dalle midterm senza danni eccessivi può manovrare con Xi senza temere che si apra subito un processo contro di lui in patria.
In una prospettiva di medio-lungo termine, però, lo scampato disastro può indurre i democratici a sottovalutare i pericoli per il 2024. Primo: se davvero DeSantis riesce a far fuori Trump nella corsa alla nomination, il ticket Biden-Harris diventa inadeguato per contrastare un 44enne dalle solide credenziali conservatrici, ma libero dagli scheletri nell’armadio di Trump. Secondo: la sinistra democratica continuerà a condizionare le scelte di Biden sulla politica energetica, impedendo che l’America sfrutti appieno il potenziale strategico delle sue energie fossili. L’autosufficienza energetica dà una marcia in più agli Stati Uniti rispetto alla Cina, e al tempo stesso può risultare preziosa per aiutare gli europei ad affrancarsi dal gas russo; ma la presa degli ultra-ambientalisti sull’Amministrazione Biden riduce queste potenzialità.
Una notazione di colore sull’elezione Usa vista da Mosca o Pechino. Anche in America gli oligarchi contano meno di quanto si crede. Il tweet con cui Elon Musk ha consigliato di votare repubblicano non sembra aver spostato le masse. Musk è una superpotenza per tante altre ragioni, dalla Tesla alla rete satellitare Starlink; ha anche un seguito di fan tra cui 115 milioni di follower su Twitter; non significa che li possa manipolare a suo piacimento.