Un filo di perle per strangolare l’India

Strategia marittima cinese – 2. L’arcipelago delle Maldive rappresenta un punto chiave della cosiddetta Via della Seta che ha come scopo quello di contenere l’influenza dell’India, l’unica in grado di contrastare la marcia di Xi
/ 14.05.2018
di Beniamino Natale

L’arcipelago delle Maldive, che conta più di mille isole coralline e meno di 500mila abitanti, è stato improvvisamente prioiettato al centro della scena geopolitica internazionale dalla rivalità tra India e Cina. Le due potenze, a dispetto delle ricorrenti ipotesi di un’alleanza «asiatica» contro la supremazia occidentale care a intellettuali e a titolisti di tutto il mondo, sono infatti impegnate in un’aspra contesa per la supremazia regionale.

L’arcipelago, noto soprattutto come una delle destinazioni preferite del turismo internazionale, è governato dal 2013 da Abdullah Yameen, un politico di professione che dopo aver vinto in elezioni dalla regolarità molto dubbia si è messo in rotta di collisione con l’opposizione e con la magistratura cancellando i passi in avanti verso la democrazia che erano stati fatti negli anni precedenti, dopo l’estromissione dal potere del «presidentissimo» Maumoom Abdul Gayoom, che ha governato il Paese per 30 anni e che, guarda caso, è un fratellastro del nuovo leader.

Tra le novità introdotte da Yameen c’è l’uscita delle Maldive dall’orbita del Grande Fratello indiano per passare in quella della Cina.

La posizione geografica dell’arcipelago, che si trova nell’Oceano Indiano ed è relativamente vicino alle coste dello Sri Lanka e dell’India meridionale, ne fa infatti un punto chiave della cosiddetta Via della Seta Marittima, una delle articolazioni fondamentali dell’ambizioso progetto del presidente cinese Xi Jinping per estendere in tutta l’Asia e successivamente in Europa e in Africa l’influenza di Pechino. Numerosi analisti, soprattutto indiani, hanno denunciato il progetto come un tentativo di imporre la supremazia cinese e di contenere l’eventuale crescita dell’India, unico Paese che potrebbe essere in grado di contrastare la marcia di Xi Jinping verso l’egemonia regionale, accusando Pechino di voler costruire una «collana di perle» per strangolare lo scomodo vicino.

Non per niente New Delhi ha sempre prestato una grande attenzione alla «stabilità» delle Maldive, tanto da mandare nel 1988 un corpo di spedizione di 1600 soldati a sventare un colpo di Stato tentato dagli oppositori di Gayoom che avevano ingaggiato per l’operazione alcune decine di guerriglieri del People’s Liberation Organization of Tamil Eelam o PLOTE, un gruppo secessionista della minoranza etnica dei tamil del vicino Sri Lanka.

Un analogo intervento era nell’aria nel marzo di quest’anno, quando New Delhi è stata ad un passo da un’azione di forza volta a ristabilire la democrazia mettendo fuori combattimento Yameen. Il presidente aveva infatti dichiarato lo stato d’emergenza dopo essersi rifiutato di obbedire alla Corte Suprema, che gli aveva ordinato di rilasciare le decine di oppositori che aveva sbattuto in galera. Secondo un dispaccio dell’agenzia Reuters del 7 marzo scorso, reparti di truppe speciali indiane erano pronti a partire per l’arcipelago quando il primo ministro Narendra Modi ha deciso di sospendere le operazioni dopo una minacciosa presa di posizione di Pechino. La Cina – ha scritto l’agenzia – «ha indicato che non gradirebbe alcun intervento straniero nelle Maldive, dove ha investito milioni di dollari nel quadro della sua One Belt One Road Initiative (BRI)», nome ufficiale di quella che è stata chiamata Nuova Via della Seta.

Negli ultimi anni, Pechino ha investito milioni anche nel rafforzamento della sua marina militare che, negli ambiziosi progetti dei dirigenti cinesi, dovrebbe essere in grado nei prossimi decenni di sfidare la flotta americana nel Pacifico.

La BRI prevede infatti una strada – la «road» – che attraverso l’Asia centrale colleghi la Cina all’Europa – e una «belt», una cintura fatta di porti che dalle coste meridionali della Cina dovrebbe arrivare fino al Golfo Persico, all’Europa meridionale e all’Africa. La «cintura» o «collana» dovrebbe partire dall’isola cinese di Hainan, passare dallo Stretto di Malacca grazie al controllo della rafforzata marina cinese, poi risalire dalla porzione orientale dell’Oceano Indiano dove già Pechino si è assicurata il controllo dei porti di Kyaukpyu nel Myanmar e di quello di Chittagong nel Bangladesh per poi scendere verso lo Sri Lanka – dove imprese cinesi controllano il nuovo porto di Hambantota, strategicamente situato nel sud-est dell’isola. Poi, dalle Maldive dovrebbe raggiungere Gwadar in Pakistan, un altro porto sotto il completo controllo dei tecnici cinesi che nei decenni passati hanno dato un contribuito alla sua costruzione.

Fondamentale per il progetto è il controllo sullo Stretto della Malacca, dal quale passano circa l’80% delle importazioni di petrolio della Cina e che in un punto chiamato Philips Channel si restringe fino ad essere di 2,8 chilometri ed è estremamente vulnerabile in caso di guerra. Uno dei punti chiave della «collana» o «filo di perle», come abbiamo visto, è il porto di Kyaukpyu nel Myanmar – uno dei paesi nei quali Cina e India si contendono ferocemente il ruolo di «alleato strategico». Il porto è vicino alla città di Sittwe, che dovrebbe essere collegata a quella cinese di Kunming, capitale della provincia dello Yunnan, da un’autostrada e da un oleodotto. I rifornimenti di petrolio dal Golfo Persico alla Cina potrebbero dunque seguire la strada marittima fino a Kyaukpyu e da qui proseguire via terra, evitando il «collo di gallina» dello Stretto della Malacca. Oltre a garantire una maggiore sicurezza questo percorso renderebbe più veloce – almeno una settimana in meno rispetto al passaggio dallo Stretto – il trasporto dell’«oro nero» mediorientale.

Un’operazione analoga, e ancora più conveniente dal punto di vista del tempo necessario ai trasporti, sarebbe quella di usare la strada che da Gwadar, in Pakistan, porterà portare fino a Kashgar, nella regione cinese del Xinjiang, che è in costruzione e che fa parte del cosiddetto China Pakistan Economic Corridor (CPEC). Si tratta però di una strada poco consigliabile perché passa dalle instabili regioni di confine tra Pakistan e Afghanistan, oltre che per un territorio – il Kashmir sotto controllo pakistano – rivendicato dall’India.

Il porto di Gwadar ha il notevole vantaggio di essere più vicino al Golfo Persico e più lontano dall’India rispetto a quello di Karachi, che fu bloccato durante la guerra tra i due paesi del 1971 e che ha rischiato di esserlo per una seconda volta nel 1999 durante il cosiddetto «conflitto di Kargil», in realtà una vera e propria guerra tra India e Pakistan. Da Gwadar l’Oman, lo Yemen e Gibuti, sulla costa orientale dell’Africa, sono relativamente vicini come del resto, attraverso il Canale di Suez, la Grecia e il Mediterraneo.

Le Maldive non sono l’unico paese della tradizionale sfera d’influenza dell’India nel quale Pechino sta cercando, spesso con successo, di scalzare il vicino. Nello Sri Lanka il porto di Hambantota è stato di fatto completamente consegnato in mani cinesi dopo una lunga altalena: la costruzione del porto – nel quale sono stati visti sottomarini militari cinesi – era cominciata quando al governo era Mahinda Rajapaksa, il «duro» che grazie anche all’aiuto economico e militare della Cina era riuscito a sconfiggere la sanguinosa ribellione della Tigri per la Liberazione della Patria Tamil (LTTE nella sigla inglese). Con l’avvento al potere di Maithripala Sirisena la costruzione del porto venne sospesa. Riprese solo quando Sirisena si rese conto che il Paese era indebitato fino al collo con la Cina, che aveva finanziato la costruzione con una spesa di quasi 400 milioni di dollari. Per sfuggire alla «trappola del debito», Colombo decise di cedere in affitto alla Cina il porto per un periodo di 99 anni.

Mentre il Pakistan è da tempo un «alleato di ferro» della Cina, Pechino si è assicurata un rapporto privilegiato col governo del Nepal, guidato dal «maoista» Pushpa Kamal Dahal detto Prachanda (il terribile). New Delhi ha reagito all’accerchiamento intensificando la battaglia per l’egemonia nei paesi ancora in bilico come il Bangladesh e, in misura minore, il Myanmar e stringendo forti legami con le altre potenze regionali ostili all’egemonia cinese, in primo luogo Giappone e Vietnam.