Un professore di storia di una scuola di Kiev si lancia in uno sfogo appassionato (e con un linguaggio molto poco adatto ai bambini) contro la corruzione dei politici e l’indifferenza degli elettori. Filmato di nascosto dai suoi allievi, finisce su YouTube e viene eletto presidente dell’Ucraina. Il personaggio di Vasiliy Goloborodko ha consacrato il suo inventore e interprete Volodimir Zelensky come il più famoso comico ucraino, con l’incredibile successo della serie Il servo del popolo, venduta anche a Netflix. Ora, la terza stagione potrebbe diventare un reality show: Zelensky guida i sondaggi per le elezioni presidenziali che si dovranno tenere in Ucraina il 31 marzo, battendo con il 21,9 per cento dei consensi i due pesi massimi della politica di Kiev, l’ex premier Yulia Timoshenko e il presidente uscente Petro Poroshenko, che progettavano di giocarsi la campagna elettorale in due e ora sono distaccati con il 19,2 e il 14,8 rispettivamente.
Il passaggio dalla fiction alla realtà all’inizio era apparso a molti come una prosecuzione della campagna promozionale della serie: a Capodanno Zelensky era apparso a mezzanotte sul canale televisivo 1+1 al posto del tradizionale messaggio del capo di Stato, annunciando la sua candidatura. La sua campagna elettorale assomiglia più a una tournée del suo team di comici, Kvartal 95, che gira l’Ucraina con uno spettacolo di satira politica. Molti analisti hanno sospettato l’attore di essere una pedina dell’oligarca Igor Kolomoysky (proprietario del canale 1+1), che ha l’obiettivo di togliere voti a Poroshenko per finire al ballottaggio con Timoshenko e lasciarla vincere. Ma con il passare delle settimane la vicenda politica di Zelensky appare sempre meno uno scherzo, e non solo perché prestandosi a fare il candidato-civetta distruggerebbe la sua reputazione di comico del popolo che sfida politici e oligarchi.
L’attore ha conquistato un terzo dei consensi degli under 30, ed è molto popolare nelle regioni dell’Est e del Sud, quelle tradizionalmente russofone. Un capitale politico che i suoi concorrenti, entrambi personaggi percepiti come ormai da troppo tempo in circolazione, non hanno.
C’è chi parla di populismo, e i paragoni con Donald Trump o Beppe Grillo sono ovvi: lo stesso Zelensky scherza che con il presidente americano troverà un’intesa «perché veniamo dallo stesso ambiente dello show business». Il programma del «servo del popolo» è inevitabilmente vago, ma intuitivamente comprensibile dall’elettorato anche grazie alla contaminazione con il suo personaggio del presidente-per-caso Goloborodko: un uomo comune che con il buon senso e l’onestà sfida corruzione e ideologie. Alle critiche di essere un pagliaccio ha risposto con una campagna sui social, apparendo con un pallino rosso sul naso e la scritta «Io sono un clown»: invita i suoi sostenitori a mandare filmati in cui raccontano perché si considerano dei pagliacci anche loro (perché presi in giro dai politici, sottopagati, maltrattati dai burocrati, ecc.).
Ma soprattutto Zelensky ha il potenziale per riparare la frattura tradizionale dell’Ucraina in Est e Ovest: viene da Kriviy Rih, una città industriale della parte orientale, la sua lingua è il russo, il nazionalismo ucraino non fa minimamente parte dei suoi codici (i genitori sono professori di origine ebraica), prima della guerra con Mosca i suoi programmi televisivi erano popolarissimi anche in Russia. Nello stesso tempo la sua posizione indipendentista è indubitabile, ha imparato a parlare l’ucraino e non lo si può certo accusare di essere un candidato filorusso. I nazionalisti estremi l’hanno criticato per i film girati in russo e il rifiuto di boicottare artisti russi non compromessi con Putin, ma proprio questo potrebbe portargli i voti dell’elettorato centrista.
La questione del rapporto con Mosca in queste elezioni, e nelle politiche previste in autunno, appare infatti molto meno centrale di quanto possa sembrare. Il dilemma «con la Russia o contro la Russia» dopo il Maidan, l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass è assente dal dibattito politico ucraino, e il candidato del Blocco d’Opposizione (quel che resta del Partito delle Regioni dell’ex presidente Yanukovich, in esilio in Russia) Yuri Boiko, che raccoglie l’8-10 per cento dei consensi, non propone comunque una agenda filorussa. La questione del ritorno tra le braccia del Cremlino non si pone, l’occupazione della Crimea durerà fino a che durerà Putin, resta il problema del Donbass, che Zelensky vorrebbe risolvere con un negoziato con i russi all’insegna del «qualcosa andrà sacrificato».
Una posizione che Poroshenko, un politico moderato costretto suo malgrado a vestire la mimetica del leader di guerra, non ha potuto assumere perché sotto pressione dei nazionalisti, che si riconoscono in Timoshenko, Anatoly Gritsenko (8%) e l’estremista Oleg Lyashko (6,5%). Ma gli ucraini sono stanchi di guerra, come sono stanchi delle guerre dei clan oligarchici, della corruzione e della povertà, e l’enorme dispersione di preferenze di voto su un numero incredibile di 44 candidati dimostra uno scoraggiamento elettorale nel quale un candidato non politico, che rappresenta una storia di successo personale e una posizione moderata, può aprirsi spazi insperati.
L’agenda di Timoshenko e Poroshenko, infatti, riprende argomenti che suonano ormai vecchi. La scelta filoeuropea dell’Ucraina non è più in discussione, e le reciproche accuse di essere corrotti, «mafiosi» e responsabili del disastro economico suonano scontate. Entrambi i big si trascinano dietro un lungo strascico di scandali, accuse, alleanze imbarazzanti e errori.
Yulia Timoshenko, l’ex «principessa del gas» incarcerata da Yanukovich, ha dalla sua un carisma e un’abilità straordinari, e una rete di sostenitori collaudata, circostanza non indifferente in un Paese con una tradizione di brogli elettorali. La sua critica populista al governo di Poroshenko va però contro tutte le riforme proposte – lotta alla corruzione, fisco, sanità, finanze e agricoltura – e viene considerata dall’elettorato moderato un’avventuriera pericolosa, con più legami a Mosca di quanti dichiara.
Poroshenko si porta dietro sia gli svantaggi che i vantaggi di essere il presidente in carica: è l’uomo che ha traghettato l’Ucraina dalla rivoluzione del Maidan a una vaga stabilità, è l’uomo che non ha perso la guerra con la Russia, è ben visto a Washington e Bruxelles e vanta la grande vittoria politica di aver conquistato per la chiesa ortodossa ucraina lo status autocefalo, rendendola ufficialmente indipendente da Mosca. Ma sconta cinque anni di crisi economica, corruzione, disastri militari e evidente tendenza all’accentramento del potere: il 50% degli ucraini dichiara che non lo voterebbe in nessuna circostanza (Timoshenko ha un rating negativo del 30%).
Come nota Paul Hockenos su «Foreign Policy», nonostante gli ultimi cinque anni siano stati segnati dalla guerra con la Russia, che ha avuto un impatto devastante anche sull’economia, «l’Ucraina non è uno Stato fallito, e la sua democrazia non è in crisi, anzi, prospera e rivaleggia con quella dei Paesi centroeuropei». La Rada, il parlamento, ha bloccato il tentativo di Poroshenko di introdurre la legge marziale dopo lo scontro tra le marine russa e ucraina nel mare di Azov, e una fitta e attiva rete di organizzazioni della società civile, emerse nell’Ucraina del post Maidan, gioca un ruolo importante. Il messaggio di «ottimismo» e «rinascita nazionale» di Zelensky può fare presa su questa realtà, e il politologo Vladimir Fesenko ritiene che, se riesce a conservare le sue posizioni e arrivare all’eventuale ballottaggio il 21 aprile, diventerà presidente.