Un campo di battaglia

Crocevia strategico, l’Afghanistan è caratterizzato da una forte instabilità fin dai tempi di Alessandro Magno
/ 17.05.2021
di Alfredo Venturi

Il ritiro delle nostre truppe procede regolarmente, dice il portavoce del Pentagono. Certo non manca una certa tensione: i soldati americani lasciano l’Afghanistan con le armi cariche. Bombardieri strategici basati in Qatar e la portaerei Eisenhower che incrocia nel Mare Arabico sono in stato di allerta. È il sofferto epilogo di un capitolo di storia, si concluderà l’11 settembre, ventesimo anniversario dell’attacco agli Stati uniti che fu il detonatore del conflitto. Quel giorno tutti i reparti americani e alleati avranno ripreso la via di casa. Aveva voluto il ritiro l’ex presidente Donald Trump negoziando a Doha l’intesa con le parti afgane, lo ha confermato, sia pure allungando i tempi, il nuovo presidente Joe Biden. Finisce così la guerra più lunga, vent’anni appunto, che mai gli Stati uniti abbiano combattuto nei due secoli e mezzo della loro esistenza.

Le truppe occidentali abbandonano un Afghanistan profondamente diviso. Le forze di sicurezza locali, addestrate dai consiglieri della Nato, cercheranno di garantire equilibri delicatissimi, in un Paese che oggi come ieri è attraversato da drammatiche turbolenze, con l’estremismo islamico che punta alla resa dei conti. La guerra che si conclude s’iscrive in una tradizione che vede l’Afghanistan alle prese con due fattori cronici d’instabilità. Da una parte una posizione geografica che fa di questa terra un crocevia strategico e dunque suscita gli appetiti di potenze vicine e lontane. Dall’altra una incessante rissosità interna, dovuta alla frammentazione tribale ma anche al perenne contrasto fra le aspirazioni al progresso civile, sociale e un conservatorismo a base religiosa che spesso assume caratteri oscurantisti.

Ecco perché in quel pezzo di mondo si combatte da sempre. Fin dai tempi di Alessandro Magno e della spettacolare incursione macedone nel cuore dell’Asia. Quarto secolo prima di Cristo, Alessandro ha sconfitto l’impero persiano e ora porta l’armata vittoriosa verso oriente. La superiorità del suo esercito permette una rapida avanzata. Arriva a Samarcanda nell’attuale Uzbekistan, poi nella Bactriana, una regione nel nord dell’Afghanistan. Qui si assicura appoggi politici che cristallizzino gli effetti delle azioni militari sposando Roxana, figlia di un notabile del posto. Infine muove alla conquista dell’India, ma dopo alcuni successi militari la sua sconfinata ambizione viene frenata dai soldati che rifiutano di andare oltre, vogliono rivedere la patria macedone ormai lontanissima.

L’avventura di Alessandro Magno ha lasciato sulle terre afgane un’impronta ellenistica ben visibile fino al settimo secolo dell’era volgare, quando gli arabi vi porteranno l’Islam. Le due versioni musulmane, la sunnita e la sciita, si confronteranno nei secoli successivi fino a quando, all’inizio del tredicesimo secolo, arriveranno i mongoli di Gengis Khan. Per loro l’Afghanistan è un punto obbligato di passaggio verso la Persia e il Mediterraneo. È un coacervo di etnie diverse e spesso reciprocamente ostili, ma a metà Settecento prende la forma di un bellicoso emirato. Proprio come Alessandro duemila anni prima, l’emirato prova a invadere l’India. E qui si scontrerà con l’impero britannico, che ha proprio nell’India il più prezioso fra i suoi possedimenti.
Tre guerre anglo-afgane si succedono fra Otto e Novecento finché Londra, stanca di battersi contro quel nemico irriducibile, decide di lasciar perdere, rinunciando alla pretesa di controllare la politica estera di Kabul.

Ma prima gli afgani devono vedersela con un’altra potenza ostile, la Russia, che trova sbarrata la via verso sud e intende consolidare e allargare il controllo sull’Asia centrale. L’emirato è dunque stretto fra Russia e Gran Bretagna, l’emiro Abdur Raman Khan si domandava nel 1900 come abbia fatto a sopravvivere, quella «capra fra due leoni». Sistemati gli inglesi, gli afgani devono confrontarsi di nuovo con profonde fratture interne. Contro la modernizzazione voluta dal primo re Amanullah Khan, che cerca di mitigare le restrizioni coraniche alle libertà individuali, si scatena nel 1919 un guerra civile che durerà un decennio. Poi la monarchia si consolida, ma quando nel 1973 il re Zahir Khan è in visita in Italia un golpe proclama la repubblica. Seguono lotte sanguinose, nel 1978 prende il potere Mohammad Taraki, nasce una repubblica democratica amica dell’Unione sovietica, che dietro la solidarietà ideologica ripropone l’interesse zarista alla regione.

Le riforme sociali avviate dal nuovo regime innescano la rivolta dei mujahidin islamisti. Nel 1979 Mosca manda l’Armata rossa a sistemare le cose ma la resistenza è tenace e in più riceve il sostegno del Pakistan, degli Stati uniti e dei sauditi, sia del Governo di Riad sia del saudita Osama bin Laden (in seguito fondatore e capo di al Qaeda), anche lui appoggiato da Washington in funzione anticomunista. Dieci anni più tardi il mondo sovietico vacilla e i russi se ne vanno, lasciandosi alle spalle un milione e mezzo di morti. Ma non per questo cessano le convulsioni afgane. Irrompe sulla scena una nuova milizia che prende il nome dai talebani, gli studenti delle scuole islamiche, e si batte contro i filo-sovietici e contro il laicismo riformista. La loro determinazione temprata dal fanatismo finisce con l’imporsi: nel 1996 i talebani entrano a Kabul.

Già nel 1992 la repubblica da democratica si è fatta islamica, la gestione del potere s’ispira ai precetti coranici e tanto più ora, dopo il trionfo talebano. La drastica rottura viene celebrata con un sacrificio atroce, il supplizio dell’ex presidente filo-sovietico Mohammad Najibullah. Da alcuni anni, dopo che era stato costretto alle dimissioni, viveva negli uffici di Kabul delle Nazioni unite. Ora le milizie islamiche violano la sede diplomatica, l’ex presidente viene portato via. Lo torturano, lo evirano, poi lo legano a una camionetta e lo trascinano più volte attorno al palazzo presidenziale. Proprio come i resti di Ettore legati al carro di Achille attorno alle mura di Troia. Infine quel corpo lacerato ma non ancora privo di vita viene finito a colpi d’arma da fuoco e appeso in bella vista, così tutti potranno constatare che l’empio Stato comunista è finito per sempre.

Poi arriva l’11 settembre, il ground zero del World trade center grida vendetta. Gli Stati uniti sconvolti individuano nel santuario afgano di al Qaeda e di Osama bin Laden, ormai il nemico per eccellenza, il luogo dove dare giustizia a tutti quei morti. Parte la guerra dei vent’anni, i talebani arretrano ma continuano a bersagliare Kabul con sanguinosi attentati. L’Afghanistan è ancora un campo di battaglia. Che cosa sarà dopo il disimpegno occidentale? Si potrebbe affidare la risposta alle parole con cui Winston Churchill definì l’Unione sovietica del 1939: un rebus avvolto in un mistero all’interno di un enigma.