Un attacco partito da lontano

Il bombardamento ai giacimenti petroliferi sauditi è l’ultimo episodio di un conflitto religioso ed economico che risale a molto indietro nel tempo e che si incrocia con gli interessi americani nella regione
/ 23.09.2019
di Federico Rampini

È una crudele ironia della sorte: proprio nella settimana in cui le Nazioni Unite richiamano l’attenzione sul cambiamento climatico, e gli appelli in difesa dell’ambiente saturano lo spazio dei nostri media, la centralità dell’energia fossile torna in primo piano. Il petrolio incrocia ancora una volta rivalità geopolitiche, ambizioni di potenza, rivalità religiose. L’Iran colpito dalle sanzioni americane si vendica con un attacco al cuore del suo grande rivale, l’Arabia saudita. Nei mesi scorsi i blitz iraniani contro navi petroliere di diverse nazionalità erano stati spettacolari ed avevano aumentato l’insicurezza in una zona vitale per le riserve energetiche del pianeta; ma l’ultima incursione di droni sabato 14 settembre ha generato danni molto superiori, dimezzando in poche ore la produzione di greggio saudita. Poi Riad è riuscita a riparare almeno parzialmente i danni, senza però rassicurare nessuno: com’è possibile che sia stato così facile colpire al cuore delle infrastrutture vitali, in un paese straricco, per di più uno dei più massimi acquirenti mondiali di armi ad alta tecnologia?

L’escalation della tensione può danneggiare tutti i paesi importatori di petrolio, dall’Europa alla Cina. Teheran nega di essere dietro l’attacco del 14 settembre, ufficialmente attribuito ai guerriglieri Huti, sciiti dello Yemen in guerra contro gli arabi. Gli Huti però agiscono con l’appoggio iraniano, le tecnologie e la copertura del potente alleato sciita. E il governo saudita dopo una sorta di inchiesta-lampo ha preso posizione in modo netto, chiamando in causa la responsabilità diretta di Teheran per l’attacco dei droni. Peraltro prima ancora di quel pronunciamento di Riad, l’intelligence degli Stati Uniti aveva fornito in tempi rapidi lo stesso verdetto, puntando il dito sul mandante iraniano dell’attacco.

Il segretario di Stato Mike Pompeo, che è volato a Jeddah per portare la sua solidarietà all’alleato saudita, ha usato parole ancora più dure, poiché ha definito i bombardamenti dal cielo come «un atto di guerra». Pompeo ha anche detto di voler costruire una coalizione coinvolgendo gli europei. Con diversi paesi dell’Unione europea, in particolare Germania e Francia, si è aperta però una divaricazione per la denuncia unilaterale che Trump ha fatto dell’accordo sul nucleare iraniano.

Ci si chiede ora se la spirale di rappresaglie possa sfuggire di mano e sfociare in una «quarta guerra del Golfo»: la prima fu il conflitto Iran-Iraq negli anni Ottanta; la seconda fu la spedizione punitiva di Bush padre nel 1991 dopo l’invasione del Kuwait; la terza avvenne con l’occupazione americana dell’Iraq iniziata nel 2003. Sono tanti capitoli cruenti di un’unica storia, il cui antefatto decisivo è l’annus horribilis dell’Islam, il 1979. Esattamente 40 anni fa, due shock stravolgevano gli equilibri geopolitici di quell’area.

La rivolta contro lo Scià di Persia, la sua cacciata in esilio, il ritorno dell’ayatollah Khomeini a Teheran, la presa di ostaggi nell’ambasciata americana: in quell’anno l’Iran da alleato di ferro dell’America si trasforma in avversario implacabile. La sua teocrazia diventa una centrale di diffusione di un credo fondamentalista (sciita), modello e ispirazione per una svolta oscurantista nell’Islam che scuoterà ogni angolo del mondo. Nello stesso anno avviene alla Mecca l’occupazione della moschea più sacra da parte di estremisti sunniti. La monarchia dei Saud teme di fare la fine dello Scià. Per sopravvivere si allea con la parte più retriva del clero wahabita, fa fare un balzo all’indietro per tutti i diritti (in particolare quelli delle donne), dà pieni poteri alla polizia religiosa, e comincia esportare un’ideologia di odio anti-occidentale nelle madrasse di tutto il mondo.

La concorrenza tra fondamentalismo sunnita e sciita naviga su fiumi di petrodollari, perché il 1979 porta anche un secondo shock petrolifero. I due «imperalismi regionali», l’arabo e il persiano, riscoprono rivalità millenarie. L’Arabia stringe più che mai l’asse con Washington, l’Iran trova sponde in Russia e in Cina. È in questa sfida di lungo periodo che si innestano gli ultimi sviluppi. Donald Trump ha solo aggiunto benzina su un conflitto aperto da anni. Barack Obama nel 2015 pensò che l’Iran poteva essere attirato in un percorso di disgelo e normalizzazione. Accettò un accordo nucleare con molti limiti: Teheran con quel patto si legava le mani solo per un decennio e solo per la bomba atomica, nulla concedeva sui missili o sull’appoggio a milizie terroriste come gli hezbollah. Obama puntava sul fatto che un Iran riammesso nell’economia globale avrebbe rinunciato al ruolo di esportatore di violenza.Al tempo stesso Obama premeva per concessioni sui diritti umani nel regno dei Saud. Trump, allineandosi con Benjamin Netanyahu e la monarchia saudita, ha fatto la scelta opposta: addio all’accordo nucleare, giro di vite sulle sanzioni economiche. La sua scommessa è di strangolare l’economia iraniana e costringere gli ayatollah a ridimensionare le proprie ambizioni geopolitiche.

Finora ha ottenuto l’effetto contrario. L’isolamento dell’Iran gli riesce solo in parte: la Cina, per esempio, da mesi continua a importare greggio da Teheran in barba alle sanzioni di Washington. E i falchi iraniani aumentano l’aggressività su tutti i fronti: dagli attacchi contro la navigazione del Golfo al Libano alla Siria. I sauditi con le violenze in Yemen o l’assassinio del giornalista Khashoggi hanno spento le speranze su un’evoluzione liberale del regime. Trump ha contribuito alle ultime convulsioni di crisi, ma eredita un bilancio pessimo da tutti i suoi predecessori: le indecisioni di Jimmy Carter sullo Scià anticiparono quelle di Obama sulle Primavere islamiche; l’invasione dell’Iraq voluta da Bush Junior fu la «levatrice» dell’Isis. E l’America non è sola. In quell’area tornano ad affiorare le mappe di imperi defunti ma pronti a rialzare la testa: oltre al persiano e all’arabo ci sono il russo, l’ottomano e il cinese.

Troppi appetiti voraci, e nessuna cornice multilaterale dove cercare un nuovo equilibrio. Nell’immediato, nei primi giorni dopo l’attacco dei droni l’America ha dovuto supplire all’Arabia pompando petrolio dalle sue riserve strategiche per scongiurare penurie e shock inflazionistici. Fino a qualche tempo fa Trump aveva alimentato le speranze che l’assemblea generale dell’Onu a New York fosse l’occasione per un incontro a sorpresa con il suo omologo iraniano Rohani: la Casa Bianca continua a non escluderlo, i colpi di scena sono il suo forte; ma da Teheran finora c’è un rifiuto netto di questo dialogo finché durano le sanzioni. Anzi, poiché Washington ha ulteriormente inasprito il suo embargo come castigo per l’attacco dei droni, c’è perfino la possibilità che la delegazione iraniana diserti del tutto il summit Onu.

L’ultima incognita è la risposta militare all’attacco devastante del 14 settembre. Per cominciare l’Arabia saudita ha deciso di prendere parte alla coalizione navale-aerea che pattuglia le acque del Golfo Persico, un’allenza guidata dagli americani. Si limiterà a questo, o vorrà fare di più? C’è un aspetto simbolico di quell’incursione di droni, partiti dallo Yemen e capaci di attraversare molte centinaia di chilometri di spazio aereo saudita senza essere intercettati, per poi piombare su installazioni petrolifere di importanza strategica. I mezzi dispiegati in quell’attacco sono impressionanti: 18 droni più quattro missili di crociera hanno centrato i bersagli. L’umiliazione subita da Riad è tale che sembra «chiamare» una risposta militare di massima potenza. Trump però ha nuovamente smorzato le aspettative di un intervento militare americano. Parlando a Los Angeles quattro giorni dopo il blitz dei droni, Trump ha detto che per reagire e punire l’Iran ci sono diverse modalità e gradazioni, l’uso diretto della forza armata contro Teheran è solo una di quelle.

Trump si è liberato da poco del suo precedente consigliere di sicurezza nazionale John Bolton proprio perché non ne condivideva il «grilletto facile». Il presidente ha preso le distanze dalle guerre dei suoi predecessori perché è refrattario a svolgere il ruolo di gendarme mondiale. Ma al posto di Bolton, Trump ha nominato un diplomatico che ne era stato uno stretto collaboratore, Robert O’Brien. Stando ai suoi precedenti O’Brien non sembra essere meno falco. Va aggiunto che una parte del Pentagono, in particolare lo United States Central Command che dirige le operazioni in Medio Oriente e ha come capo il generale Kenneth McKenzie, preme per avere più truppe americane in quell’area.Un’altra novità rende precari gli equilibri in quell’area, e indebolisce la cornice delle alleanze di Trump: è il voto israeliano.

Benjamin Netanyahu è arrivato secondo dietro il centrista Benny Ganz, un ex militare che però è un moderato rispetto al premier uscente. Anche se la politica israeliana è sempre ricca di sorprese, cresce la possibilità che la parabola politica di Netanyahu sia vicina alla fine. In tal caso uscirebbe di scena uno degli uomini che avevano esercitato maggiore influenza sulla politica mediorientale di questa Amministrazione americana. Per chiudere sul tema iniziale, tornando cioè alla questione delle energie fossili, una singolare coincidenza ha fatto sì che proprio nel bel mezzo di un mini-allarme petrolifero Trump abbia preso d’assalto la California per le sue leggi ambientaliste che puntano a ridurre le emissioni di CO2.