Ultima chance

Brexit – Se l’accordo della May sarà approvato dal Parlamento britannico entro il 12 aprile, Londra avrà tempo fino al 22 maggio
/ 25.03.2019
di Cristina Marconi

Per provare l’ebbrezza di ballare sull’orlo del precipizio bisogna avvicinarsi il più possibile, senza accontentarsi di guardare l’abisso a distanza. Solo così il frisson, necessario per risvegliare il principio di sopravvivenza, è garantito; peccato che la possibilità di tornare indietro sani e salvi lo sia un po’ meno. È questa la scommessa della premier britannica Theresa May, che ha chiesto a Bruxelles una proroga breve della Brexit, fino al 30 giugno, e ne ha ottenuta una brevissima, dal 29 marzo al 22 maggio, ma solo a condizione che l’accordo siglato con la Ue venga approvato nei prossimi giorni da Westminster, dove è stato già bocciato due volte, entrambe sonoramente. Qualora anche il terzo tentativo andasse male, il rinvio sarà ancora più esiguo, fino al 12 aprile, appena sufficiente per tirare fuori dal cilindro un piano B coerente, «indicare la strada da seguire», o per prepararsi al no deal.

Nel momento in cui il percorso per l’uscita del Regno Unito dalla Ue è arrivato vicino al punto di implosione, il Consiglio europeo, ormai spazientito dalle indecisioni di Londra ma anche pronto a dare un ultimo fragile assist ad una premier politicamente esangue, ha scelto di restringere il ventaglio delle possibilità e costringere i deputati britannici a guardare nel precipizio di un divorzio senza accordo che terrorizza sia gli industriali che i sindacati ma che invece, agli occhi di un manipolo di euroscettici oltranzisti, appare come il più desiderabile degli esiti: la Brexit pura, autolesionista e senza compromessi. Solo che questa volta non è più Londra a minacciarlo, ma Bruxelles a dettare con fermezza i tempi, togliendo ai britannici il privilegio di essere loro a sbattere la porta. 

Mentre una petizione per revocare l’articolo 50 con cui il Regno Unito ha chiesto l’uscita dall’Unione europea due anni fa ha superato il milione e trecentomila firme, mandando in tilt il sito web, la May ha mostrato in maniera molto esplicita tutti i suoi limiti politici e umani dando la colpa della situazione attuale ai parlamentari. In un discorso al Paese mercoledì sera, ha detto che «i deputati hanno fatto di tutto per evitare di prendere una decisione» e sebbene questo sia vero, certo non aiuta a guardare con fiducia ad un eventuale terzo voto sull’accordo. «Di una cosa sono certa – ha spiegato – ossia che voi, del pubblico, ne avete avuto abbastanza. Siete stanchi delle lotte intestine, stanchi dei giochi politici e delle dispute procedurali arcane, stanchi dei deputati che non parlano che di Brexit quando voi avete vere preoccupazioni sulle scuole dei vostri figli, sul servizio sanitario nazionale e sugli accoltellamenti».

Questo scaricabarile rischia di danneggiarla ulteriormente, se possibile, in un’aula che non ha più nessun rispetto per lei, donna poco incline al compromesso, rancorosa e incapace, secondo chi la conosce bene, di convincere gli altri delle proprie posizioni. Se in questi anni si sono dimessi così tanti ministri, non è solo per via della delicatezza del tema europeo, ma anche perché la May è incapace di operare in maniera collegiale. E il fatto che un deputato laburista sia stato chiamato «traditore» e aggredito da alcuni esponenti della sua circoscrizione sarebbe da attribuire proprio alle parole della May, foriere di divisione e odio in un Paese sull’orlo di una crisi di nervi. 

D’altra parte, solo con un’opposizione debole come quella del Labour di Jeremy Corbyn si può spiegare che la May sia sopravvissuta tutto questo tempo tra catastrofi varie e nonostante la sua palese incapacità di vendere al Paese un accordo solido, che rispettava molte delle richieste più o meno implicite degli elettori pro-Brexit, a partire dallo stop alla libera circolazione dei cittadini europei. Non c’è una cosa che sia andata bene alla premier in questo processo prodigiosamente sfortunato. Lei, d’altronde, aveva fatto di tutto per evitare di dover concedere ai deputati un «voto significativo», che le è stato invece imposto dalle sentenze dell’Alta Corte e della Corte suprema dopo i ricorsi presentati da cittadini e attivisti.

Col risultato che il Parlamento, specchio di un Paese spaccato e confuso, ha respinto due volte il testo della May, prima con 230 e poi con 149 voti di scarto e lo speaker John Bercow, con le sue cravatte chiassose e la sua voce stentorea, ha bloccato il tentativo della premier di portare l’accordo a Westminster per la terza volta prima del vertice europeo della settimana scorsa, dicendo che sulla base di una convenzione risalente al 1604 non si può, in buona sostanza, cercare di far approvare un testo per sfinimento. Bercow è diventato il bersaglio di numerose critiche da parte di deputati brexiters che ne hanno fatto il capro espiatorio di un fallimento che invece è tutto ascrivibile alla mancanza di maturità di una classe politica, di realismo e di capacità di leadership. Per alcuni remainers, invece, lo speaker è l’alleato segreto che sta cercando di sabotare l’intero processo impedendone una chiusura imperfetta ma definitiva e lasciando il tempo agli anti-Brexit di organizzare contromosse. 

Si agisce ancora dietro le quinte, a Londra, dove le carte sono rimaste tutte saldamente nascoste fino alla fine, in attesa che lo sfinimento collettivo dia loro nuovo valore. Proprio a questo gioco Bruxelles sta cercando di porre fine, stabilendo una tabella di marcia severa e a prova di emendamenti contorti e tergiversazioni. Perché nessuno ne può più di quest’isola alla deriva senza leadership di nessun tipo, con una premier ormai fantoccio che segue un solo principio guida, fin dall’inizio: evitare che il suo partito si spacchi lungo la crepa già profonda del rapporto con la Ue. E per tenerlo insieme ha guardato unicamente a destra, all’Erg, European Research Group, corrente politica che fa molta pressione e poca «ricerca» nonostante il nome, visto che la sua proposta consiste semplicemente nel taglio secco e grossolano del no deal. E pazienza se a pagare le conseguenze saranno soprattutto le fasce più deboli: Jacob Rees-Mogg è un finanziere con casa accanto a Westminster, come molti dei populisti britannici. 

La richiesta di proroga ha però un vantaggio immediato: fornisce all’accordo stretto dalla May con Bruxelles quell’elemento di freschezza e di novità che gli permette di tornare a Westminster senza incorrere nell’ira dello speaker Bercow. Ma la May, sempre nel tentativo di blandire gli euroscettici, ha confermato che l’applicazione delle regole dell’organizzazione mondiale del commercio, con l’azzeramento temporaneo delle tariffe sulla maggioranza dei beni per non soffocare l’economia, rimane l’opzione «di default», ossia quella che verrà applicata nel caso non si approvi l’accordo, sebbene il Parlamento abbia detto che quell’opzione preferirebbe scartarla del tutto, oggi e in futuro. Peccato che, come sottolineato da Robert Shrimsley sul «Financial Times», sia come votare per abolire la morte e pretendere che il Tristo Mietitore metta da parte la sua falce dopo il verdetto di Westminster.

Il fronte degli europeisti ha molte colpe: aver frammentato la propria force de frappe dietro il sostegno a numerose opzioni contraddittorie, dal secondo referendum (suggestiva, ma al momento ancora evanescente) all’ipotesi di una Brexit light fatta di unione doganale o partecipazione al mercato interno in stile Norvegia, con l’inconveniente di dover accettare la libera circolazione delle persone e seguire regole decise da altri, fino all’idea di poter sabotare interamente la Brexit, annullandola. Il leader dell’opposizione non ha saputo unire queste istanze, così come la leader del Paese non ha saputo unire una maggioranza dietro le sue idee e questo resterà di questa Brexit: la dimostrazione di cosa succede quando nessuno guida e tutti seguono, impauriti da un elettorato che si è smesso di guardare in faccia. Comunque vada, si è già finiti nel baratro.