Il ministro degli esteri

Ignazio Cassis (60 anni) è membro del Consiglio federale e capo del DFAE dal 2017. Specializzato in medicina interna e prevenzione, è stato medico cantonale ticinese dal 1996 al 2008, successivamente vicepresidente della Federazione dei medici svizzeri FMH e presidente di Curafutura, l’associazione degli assicuratori-malattia innovativi. Prima dell’elezione a consigliere federale, Cassis era presidente del gruppo PLR in Consiglio nazionale. È sposato ed abita a Montagnola.


«UE e Svizzera rimarranno comunque amiche»

Intervista - Unione europea, Cina, emergenza coronavirus: i dossier di cui deve occuparsi il consigliere federale Ignazio Cassis sono numerosi e complicati. E non resta molto tempo per la vita privata
/ 17.05.2021
di Ralf Kaminski, Laurent Nicolet

Ignazio Cassis, l’accordo quadro con l’Unione europea non può più essere salvato, giusto?
C’è bisogno di una soluzione soddisfacente nei tre ambiti controversi della protezione dei salari, della direttiva sulla cittadinanza europea e degli aiuti di Stato. Senza una soluzione del genere, il Consiglio federale non potrà firmare l’accordo quadro, come ha già comunicato più volte.

Ma questa soluzione non è in vista.
A fine aprile abbiamo nuovamente invitato l’Ue a valutare ancora se non voglia spostarsi dalle sue posizioni. Una delle questioni più ostiche è la libera circolazione delle persone, che l’UE vorrebbe estendere oltre gli aspetti economici, mentre la Svizzera vorrebbe limitarla ai lavoratori.

Ma se l’UE non fa un passo, è finita?
Non è ancora detta l’ultima parola, ma adesso c’è davvero bisogno di una concessione chiara da parte dell’Unione Europea.

Gli osservatori politici Le addossano una corresponsabilità per questo braccio di ferro infinito, Lei appare isolato sul dossier e non ha mai comunicato una posizione chiara. Che ne pensa?
Tireremo le somme dei negoziati quando saranno conclusi, ora è ancora troppo presto. È un dossier molto difficile e io sono il terzo consigliere federale che se ne occupa; ai negoziati hanno partecipato già cinque segretari di Stato. Basta questo a dimostrare quanto sia complessa la materia e quanto l’argomento tocchi la coscienza e l’identità del Paese. Personalmente, mi sono impegnato a fondo sul dossier sin dall’inizio. La mia posizione è sempre stata chiara: di un accordo quadro c’è bisogno, ma non a tutti i costi. Che su di un tema così importante ci siano delle critiche, fa parte del mestiere.

Quindi non sarebbe un gran male se non si arrivasse a un accordo?
Ci sono buone ragioni a favore di un accordo quadro. Se non giungiamo a un accordo, le condizioni quadro per alcuni settori della nostra economia peggioreranno. Non sono però in gioco le relazioni con l’UE. Anche in caso negativo, resteranno in vigore gli oltre 120 accordi bilaterali. In definitiva, dietro a tutto c’è la questione di come vogliamo sviluppare ulteriormente le nostre relazioni con l’UE nei prossimi dieci o venti anni. E, a differenza della Brexit, non ci sono scadenze fisse entro cui va presa una decisione.

Quanto danneggerà le relazioni tra Svizzera e UE un fallimento dei negoziati?
Non siamo ancora a questo punto. Il Consiglio federale continuerà anche in seguito a percorrere la via bilaterale. Con l’Unione europea vogliamo relazioni buone e regolamentate, come d’altronde vuole anche lei e specialmente i nostri Paesi vicini. E resteremo buoni partner ed amici anche senza questo accordo.

Come proseguiranno le relazioni bilaterali dopo un eventuale fallimento? Esiste un piano B?
Ogni cosa a suo tempo. Il Consiglio federale sta riflettendo su alcune alternative, ma questo è il momento sbagliato per discuterne.

Anche il rapporto con la Cina è complicato. Di recente, Lei ha criticato apertamente questo Paese e la cosa non è stata accolta bene a Pechino. Quanto è difficile in questo caso trovare il giusto equilibrio?
Il mondo si sta muovendo sempre di più verso una nuova polarizzazione tra le due superpotenze Stati Uniti e Cina; per il Consiglio federale entrambi rappresentano una priorità, anche a livello scientifico e culturale. Con gli USA condividiamo più valori che con la Cina, ma rispettiamo questo Paese, con cui desideriamo avere se possibile delle  buone relazioni. Quindi, dobbiamo avere anche il coraggio di dire loro cosa non ci piace, come ad esempio la situazione dei diritti umani. Lo abbiamo fatto e la reazione era prevedibile, tuttavia ciò crea una base per tornare su questi argomenti anche in futuro.

La Svizzera avrà questo coraggio anche a rischio di deteriorare le relazioni economiche?
Sì. Stiamo già creando dei forum per informare e sensibilizzare le imprese. Anche le università svizzere dovrebbero riflettere sul perché la Cina è tanto interessata ad avere buone relazioni accademiche con la Svizzera. Con ciò non voglio dire che sia un male, ma che forse bisognerebbe essere un po’ più consapevoli di quello che si fa.

La Svizzera non potrebbe esprimere il suo malcontento inviando anche dei segnali economici?
Per la Cina, la Svizzera è un partner commerciale molto minore. Non si accorgerebbe neppure di sanzioni severe. Crediamo di poter ottenere di più con il dialogo. In un contesto di buone relazioni, si possono toccare anche argomenti spinosi. Incontro la mia controparte una volta all’anno: nell’ultima, abbiamo parlato per due ore di Hong Kong, degli uiguri e dei diritti umani. Se anche altri Paesi più potenti, come la Germania o la Gran Bretagna, facessero la stessa cosa, si avrebbe un effetto. Goccia a goccia si scava la roccia.

In risposta alla situazione di Hong Kong, la Gran Bretagna ha facilitato l’immigrazione di gran parte dei cittadini della sua ex colonia. La Svizzera non potrebbe fare qualcosa di simile? In fin dei conti, anche i tibetani furono aiutati.
La situazione di partenza è completamente diversa: in quanto ex potenza coloniale, la Gran Bretagna ha un rapporto speciale con Hong Kong. La Svizzera, però, ha già detto chiaramente di essere preoccupata per l’indebolimento del principio «un Paese, due sistemi», che per noi rappresentò un segnale di speranza inviato dalla Cina all’epoca del passaggio di consegne dai britannici. Da qualche tempo, tuttavia, si sta andando in un’altra direzione.

La Svizzera potrebbe fornire un sostegno maggiore a Taiwan?
Noi continuiamo ad attenerci alla politica secondo cui esiste una sola Cina, ma stiamo dandoci da fare per aiutare Taiwan affinché abbia voce a livello internazionale. Intratteniamo buone relazioni economiche e culturali, ad esempio riceviamo le sue delegazioni a Berna e a Ginevra.

Ma un riconoscimento non è all’orizzonte?
Per il momento ci atteniamo alla regola «una sola Cina», che nella maggior parte dei casi vale anche a livello internazionale.

All’inizio dell’anno è entrato in vigore il Trattato ONU per la messa al bando delle armi nucleari. Cosa ne rende così difficile la firma da parte del Consiglio federale?
La Svizzera condivide l’obiettivo di un mondo senza armi atomiche. Ci fa esitare il fatto che difficilmente il nuovo trattato potrà contribuire al disarmo. Le potenze nucleari, infatti, non lo hanno sottoscritto e solo quattro Stati europei lo hanno firmato: Austria, Irlanda, Malta e Vaticano. È più importante il Trattato di non proliferazione nucleare, sottoscritto anche dalle potenze nucleari. Noi temiamo che il nuovo trattato possa svalutare il vecchio e ciò non è nell’interesse della Svizzera. Ad agosto dovrebbe svolgersi la Conferenza di riesame del Trattato di non proliferazione nucleare, prevista per l’anno scorso, dopodiché il Consiglio federale esaminerà nuovamente la questione.

A che punto è la candidatura della Svizzera al Consiglio di sicurezza dell’Onu per il biennio 2023/2024? Abbiamo qualche possibilità?
Sì. Ci sono due posti vacanti e finora altrettante candidature, noi e Malta. L’Assemblea generale dell’Onu deciderà a giugno 2022. Dovremmo farcela anche nel caso di una terza candidatura a breve termine. Stiamo ricevendo molto appoggio internazionale.

E dalla politica nazionale?
Dopo dieci anni di intensi dibattiti, non è più una questione di «se», ma di «come». Infatti, i nostri processi decisionali sono notoriamente piuttosto lenti. In qualità di membri del Consiglio di sicurezza dovremo adeguare la nostra andatura al ritmo internazionale e attualmente sono in corso discussioni su come possiamo garantirlo.

Il Consiglio federale ha alle spalle un anno difficile, in cui ha dovuto cercare continuamente di bilanciare le diverse esigenze nell’ambito delle misure anti-coronavirus. Cosa ha da dire a coloro che accusano il governo federale di tendenze dittatoriali?
Si levano accuse del genere perché siamo tutti stanchi della pandemia e di conseguenza i fronti si sono irrigiditi. A livello internazionale si osserva la stessa cosa, ma secondo me nel confronto noi siamo messi meglio. La maggior parte delle persone, infatti, dimostra comprensione e non abbiamo mai dovuto imporre un lockdown così severo come in molti altri Paesi. Abbiamo cercato di trovare un equilibrio tra una lotta al virus efficace, i bisogni sociali e psicologici e le richieste dell’economia. E tutto questo senza strapazzare troppo il federalismo. Penso che ci siamo riusciti abbastanza. Ma un giudizio finale si potrà dare solo quando ci saremo lasciati alle spalle il coronavirus.

Quanto è difficile trovare l’unità su queste misure all’interno del Consiglio federale?
Al culmine della crisi ci riunivamo per discutere tre volte alla settimana. In questo modo ci si conosce davvero molto bene. L’obiettivo finale non è l’armonia: nella compagine devono essere rappresentate tutte le linee di pensiero, ciò che conduce spesso a discussioni molto animate. Alla fine di ogni seduta, però, bisogna trovare un compromesso e la buona soluzione si ha quando tutti sono ugualmente soddisfatti o insoddisfatti, come spesso è il caso.

Non ci sono quindi votazioni a maggioranza?
Quasi mai. Si discute finché non si trova un compromesso. La nostra Storia dimostra che questo modo di procedere non è sbagliato, perché è adeguato alla grande varietà del nostro Paese.

A volte, il coordinamento con i Paesi vicini durante il coronavirus è risultato caotico se non addirittura inesistente. Come ministro degli esteri, non avrebbe dovuto fare qualcosa di più?
Nelle prime due settimane c’era una grande frenesia. Nonostante avessimo visto quel che era successo in Cina, quasi nessuno in Europa si aspettava che sarebbe successo anche qui. In fondo, l’influenza aviaria e quella suina non avevano avuto quasi conseguenze per noi. Il coronavirus è scoppiato all’improvviso, tutti i governi sono rimasti sorpresi e all’inizio hanno avuto una reazione tipicamente umana: pensare a sé! Presto, però, si è realizzato che così non andava. Sono seguiti giorni intensi, in cui ho avuto moltissime discussioni con i miei omologhi, soprattutto dei Paesi vicini. L’effetto collaterale positivo è che le relazioni si sono rafforzate. Grazie ai numerosi colloqui di crisi, ora ho con loro contatti molto più stretti, il che è d’aiuto anche per altre questioni.

Un recente studio comparativo internazionale è giunto alla conclusione che con le sue disposizioni la Svizzera ha protetto più l’economia della popolazione. Non possiamo andarne particolarmente fieri, o no?
Dal mio punto di vista, economia e salute non dovrebbero essere messe in contrapposizione. Non c’è salute senza benessere e viceversa. Inoltre, si potrà stilare seriamente un bilancio solo quando la pandemia sarà finita. Nei prossimi anni appariranno innumerevoli analisi: allora vedremo come ne emergerà la Svizzera.

Sul coronavirus, il Suo partito oscilla di continuo: un giorno sostiene il Consiglio federale, il giorno dopo chiede allentamenti più rapidi. Quanto è difficile questo per Lei, con la Sua formazione di medico?
I partiti e il Consiglio federale hanno funzioni completamente diverse. E a me pare del tutto normale che, in questi tempi di crisi, ogni partito abbia opinioni differenziate.

Non ha mai telefonato alla presidente del Suo partito per dirle che così non va?

(ride) Siamo sempre in contatto, ma non mi permetterei mai di dare un ordine alla presidente. Ho rispetto per il suo ruolo, che non è sempre facile.

Già oggi si specula sul fatto che dopo le elezioni del 2023 il PRD potrebbe perdere un seggio in Consiglio federale e che Lei dovrebbe preoccuparsi più di Karin Keller-Sutter. È preoccupato?

No, sono rilassato. Faccio il mio lavoro con molta gioia e passione. E servirò il mio Paese fino a quando il Parlamento lo vorrà. Vedremo cosa succede.

Lei viene presentato come il «consigliere federale ticinese». Ha davvero occasione di inserire questa angolazione nel Suo lavoro?
Certamente. Solo il fatto che un rappresentante di questa comunità linguistica sieda in Consiglio federale, muta gli equilibri e le discussioni: ogni comunità linguistica pensa in modo diverso e agisce secondo le proprie sensibilità. A volte, quindi, io introduco anche nuove prospettive, che altrimenti non ci sarebbero. Ad esempio, all’inizio della pandemia il Ticino era molto colpito a causa della vicinanza con l’epicentro in Italia settentrionale. Ho potuto portare questa emergenza in seno al governo e creare quindi comprensione per una situazione che in quel momento in Ticino era differente rispetto al resto della Svizzera.

In relazione a cosa la gente pensa diversamente in Ticino?
Riguardo a molti aspetti! Ci vorrebbe un’intervista a parte! Il rapporto Stato-cittadino è diverso, anche la religiosità è diversa, perché non abbiamo mai avuto una Riforma. I miei collaboratori svizzero-tedeschi potrebbero riempire due libri con tutto quello che hanno vissuto e scoperto lavorando con un ticinese come me. Continuano a dirmi che non avrebbero mai pensato che le differenze fossero così grandi. Io ne sono molto consapevole perché ho studiato a Zurigo, ho abitato a Losanna ed oggi lavoro a Berna, quindi lo vivo in prima persona. All’interno del nostro Paese c’è una grande diversità che è molto preziosa.

Con un lavoro così intenso, trova ancora tempo per la vita privata?
Meno. Il mio tempo libero è riservato alla famiglia, a mia moglie, mia madre e alle mie sorelle. Cerco anche, nel limite del possibile, di trascorrere i fine settimana a casa, sia per prendere un po’ di distanza dal lavoro, ma anche per mantenere il contatto con la gente del Ticino.

E ha ancora occasione di suonare la chitarra?
Purtroppo no. Né la chitarra né la tromba, come anche altre cose che ho messo da parte per i tempi che verranno dopo il Consiglio federale.

Ma ogni tanto potrebbe suonare per intrattenere i Suoi colleghi del Consiglio federale?
(ride) Non sono sicuro che ne sarebbero così entusiasti. Con Simonetta Sommaruga abbiamo nella compagine una pianista professionista ed anche Alain Berset suona bene il piano. Preferisco lasciar perdere.

Potreste formare un complesso musicale governativo…
(ride) Esattamente! Chissà, magari alla fine dell’emergenza coronavirus festeggeremo.