Tutto si gioca in Africa

Il trend: quando sale il livello di scolarità femminile la natalità scende
/ 29.08.2022
di Federico Rampini

C’era una volta la bomba demografica. Oggi, più limitata, c’è la bomba demografica africana. Finirà per rivelarsi anche quella un’esagerazione? Le previsioni sull’andamento della popolazione hanno una dimensione scientifica e una ideologica. Non sempre è difficile distinguere fra le due. Dai tempi di Thomas Robert Malthus (1766-1834), influenti correnti di pensiero hanno interpretato il futuro dell’umanità in base a previsioni catastrofiste sull’impossibilità di mantenere troppi esseri umani. All’epoca di Malthus la chiave di tutto stava (secondo lui) nell’impossibilità dell’agricoltura di sfamare una popolazione crescente; quindi l’Apocalisse sarebbe arrivata sotto forma di carestie che avrebbero falcidiato i troppi nati. Oggi il malthusianesimo viene riscoperto da certi ambientalisti secondo cui la specie umana è già in eccesso rispetto alle risorse del pianeta e la natalità viene vista come una forza distruttiva. Dai tempi di Napoleone Bonaparte si è aggiunta una dimensione geopolitica alla demografia; la potenza delle nazioni viene collegata al numero di abitanti: potenziali soldati della Grande Armée nell’Ottocento; poi produttori di Pil nella versione più moderna. Perciò le proiezioni su natalità, invecchiamento, mortalità, sono anche messe al servizio delle analisi sulla gara tra superpotenze.

Quanto sono affidabili le previsioni sul numero di abitanti del pianeta, o di questa o quella nazione? Le più citate sono quelle delle Nazioni Unite, spesso però chi le maneggia dimentica di precisare quanto siano «vaghe», volutamente avvolte in un’ambiguità notevole. Quest’anno la popolazione della terra raggiungerà gli otto miliardi. Poi, l’Onu dice che arriveremo a 9,7 miliardi nel 2050, e questa cifra rappresenta una correzione clamorosa – al rialzo di 800 milioni! – rispetto ai calcoli che la stessa istituzione faceva vent’anni fa. Per la fine del secolo l’Onu presenta due opzioni: potremmo salire ulteriormente fino a un massimo di 12,4 miliardi, oppure al contrario scendere a quota 8,9. C’è una differenza enorme, in un caso il boom demografico continua, nell’altro c’è una netta inversione di tendenza. Occhi puntati sull’Africa, perché nel resto del mondo la denatalità è già cominciata da tempo e si trasforma perfino in spopolamento (dall’Europa alla Cina), oppure c’è una crescita demografica in rallentamento (India). Si capisce che l’Organizzazione delle Nazioni Unite voglia salvaguardare la credibilità delle sue previsioni adottando una forchetta molto larga, il risultato però è di descriverci due futuri alternativi: in uno c’è la bomba demografica, nell’altro c’è l’inversione di tendenza e la popolazione umana sul pianeta Terra declina.

L’Onu non è l’unica fonte autorevole. A elaborare proiezioni alternative ci sono altri centri studi tra cui il Wittgenstein Center for Demography and Global Human Capital dell’Università di Vienna. Secondo questo istituto il picco massimo della popolazione umana è più vicino, è più basso, e il declino arriverà prima. Tutto si gioca in Africa, i diversi scenari per il continente nero spiegano la divergenza nelle proiezioni. Per l’Onu la popolazione africana crescerà dagli attuali 1,3 a 3,9 miliardi alla fine del secolo. Per il centro Wittgenstein di Vienna invece si fermerà a 2,9 o addirittura a 1,7 miliardi a fine secolo. La differenza sostanziale si spiega con il fattore istruzione. I cambiamenti riproduttivi sono influenzati in modo determinante dal livello d’istruzione, soprattutto delle donne. In tutte le aree del mondo, senza eccezione, quando sale il livello di scolarità femminile (e con esso anche l’accesso delle donne al mercato del lavoro), la natalità scende o addirittura crolla. È una legge inesorabile che si sta confermando anche in India, sia pure con qualche lentezza. La politica del figlio unico in Cina ha anticipato e accelerato il trend, ma il crollo della natalità cinese si sarebbe verificato lo stesso, per il semplice effetto dello sviluppo economico che ha portato con sé un’istruzione migliore e più opportunità di carriera per le cinesi. Una volta che le donne – e anche i loro compagni – decidono che la soluzione ottimale per rendere compatibili il lavoro e gli impegni familiari è avere pochi figli, o addirittura uno solo, o nessuno, è difficilissimo o forse impossibile che facciano marcia indietro. La prova su scala gigante la fornisce la Cina: il regime, spaventato dagli effetti del declino demografico, ha cancellato la politica del figlio unico e l’ha sostituita con incentivi a fare più figli, ma senza risultati.

Le proiezioni sulla popolazione mondiale dipendono dunque dalle aspettative che abbiamo sull’Africa. Se prevediamo un continente nero bloccato nella povertà, nella violenza e nell’instabilità politica, allora è razionale che la condizione femminile migliori troppo lentamente e che la crescita demografica segua il trend più alto indicato dall’Onu. Se l’Africa imbocca un percorso di sviluppo, seguirà la stessa legge demografica che ha condizionato il resto del mondo. Il centro Wittgenstein punta sul fatto che l’Africa non rimanga per sempre prigioniera della situazione attuale. Alcuni segnali sembrano confortare il suo ottimismo, ivi compresa l’avanzata «neocoloniale» della Cina che trapianta in Africa il suo modello di sviluppo: con tante forme di sfruttamento, saccheggio delle risorse, abusi dei diritti umani, ma anche un’industrializzazione che ha funzionato altrove per innalzare i livelli di vita. Se qualche variante del modello cinese dovesse funzionare in Africa, fra le tante proiezioni sbagliate ci saranno anche i luoghi comuni sulla «inevitabile» invasione dell’Europa da parte di masse sterminate di poveri dall’emisfero sud.

Le conseguenze geopolitiche delle proiezioni demografiche sono tante. Nei rapporti di forza tra le nazioni, una prima cosa che balza agli occhi è il sorpasso dell’India sulla Cina: gli indiani secondo l’Onu saranno 1,7 miliardi nel 2064, il 50% in più dei cinesi. Molte osservazioni sul futuro demografico si focalizzano sull’ipotesi che la Cina stia entrando in una fase di decadenza perché si riduce la sua abbondante forza lavoro (meno 70 milioni entro il 2035) mentre aumenta una popolazione anziana che va mantenuta. La distanza tra la popolazione cinese e quella americana è destinata a ridursi, mentre resta notevole il divario economico tra le due superpotenze rivali: nel 2050 la Cina rischia di non aver raggiunto neppure la metà del reddito pro capite degli Stati Uniti. Il «declinismo» applicato alla Cina, talvolta con toni apocalittici, è una nuova variante del malthusianesimo? Di sicuro tende a sottovalutare l’esempio del vicino Giappone, che ha dimostrato prima di tutti come si possa coniugare l’invecchiamento demografico con un nuovo equilibrio economico.

Dopo decenni di allarmismo sull’eccesso di nascite, non è affatto passato di moda l’atteggiamento malthusiano per cui «siamo troppi sul pianeta». Oggi convive con un nuovo allarmismo di segno opposto che lamenta l’improvvisa scarsità di giovani, la penuria di manodopera. I fautori dell’Apocalisse hanno una cosa in comune: la sfiducia nelle capacità di adattamento della specie umana grazie al progresso scientifico, all’innovazione tecnologica, all’intraprendenza economica. Negli anni Sessanta e Settanta gli allarmi sulla «bomba demografica» si accompagnavano con la certezza che l’agricoltura non avrebbe mai sfamato così tanti miliardi di persone. Invece i progressi della produttività agricola hanno continuato a garantire che produciamo più cibo di quanto sia necessario. La fame che purtroppo esiste ancora è la conseguenza di inefficienze e diseguaglianze distributive, ma l’innovazione agricola ha avuto la meglio su Malthus.