Tunisia spaccata a metà

Le proteste evidenziano la divisione tra i sostenitori del presidente Saied e quelli del partito islamista Ennahda. Intanto il Paese è in ginocchio a causa di una profonda crisi economica e della pandemia
/ 02.08.2021
di Francesca Mannocchi

In Tunisia tornano le proteste e insieme la grande preoccupazione per il futuro. Il Paese, a pochi mesi dalle ultime massicce manifestazioni di piazza, è di nuovo di fronte a un momento estremamente delicato. Domenica 25 luglio, il giorno della festa della Repubblica tunisina, il presidente Kais Saied ha licenziato il primo ministro Hichem Mechichi, sospeso le attività del Parlamento e privato i deputati dell’immunità. Qualche giorno dopo ha silurato una ventina di alti funzionari governativi e il procuratore generale militare.
Le mosse seguono una nuova ondata di proteste che derivano da problemi strutturali del Paese – l’assenza di concrete politiche del lavoro, i picchi di disoccupazione e una crisi economica senza precedenti – a cui si sono andati ad aggiungere negli ultimi mesi problemi imprevisti che hanno aggravato le condizioni di vita dei cittadini tunisini, cioè una cattiva gestione della pandemia da parte del Governo.

Nel suo discorso al Paese Saied, assumendo pieni poteri, ha annunciato che avrebbe presto nominato un nuovo primo ministro di sua fiducia. I membri del primo partito in Parlamento, gli islamisti moderati di Ennahda, hanno immediatamente parlato di golpe, mentre in tutto il Paese, da Susa a Tozeur, i manifestanti prendevano d’assalto le sedi del partito, ritenuto da molti una delle cause della cattiva gestione del Paese.
Saied ha agito, a suo dire, secondo un’interpretazione dell’articolo 80 della Costituzione che gli permette di adottare «misure eccezionali» in caso di emergenza nazionale. Già lo scorso maggio un leak pubblicato dal sito «Middle east eye» aveva reso pubbliche le voci di un piano per rovesciare il Governo tunisino e dare a Saied il pieno controllo delle istituzioni. I documenti rivelavano i dettagli dell’operazione secondo cui il presidente avrebbe preso il potere proprio avvalendosi dell’articolo 80, estromettendo altri partiti dalla gestione della vita politica del Paese.

Le decisioni di Saied derivano da una combinazione di diverse crisi. Sebbene infatti la Tunisia venga considerata l’esempio più compiuto delle rivoluzioni del 2011, e abbia effettivamente dimostrato di essere al centro di un processo di transizione democratica (si pensi allo svolgimento regolare di elezioni, al rispetto della libertà di espressione), la sua economia vive da anni un preoccupante stallo che ha destabilizzato ampie sezioni della società. All’inizio di luglio l’agenzia di rating Fitch ha declassato il Paese da B a B–, citando un aumento dei rischi fiscali e un problema serio di liquidità se non verrà approvato il piano di aiuti del Fondo monetario internazionale. Nell’ultimo anno, quando alla grave crisi economico-finanziaria e alla disoccupazione che ormai ha raggiunto quasi il 18%, si è aggiunta l’epidemia, la situazione è precipitata.

La Tunisia è stata ed è infatti uno degli epicentri della pandemia da Covid nell’area e dopo il Ramadan è stata esposta a un picco di contagi che ha portato al collasso del sistema sanitario: molti ospedali sono rimasti privi di ossigeno e il bilancio delle vittime ha superato i duecento morti al giorno. Sono state contagiate circa 600 mila persone, almeno 18 mila sono morte, in un Paese di undici milioni di persone (dato di settimana scorsa).
La campagna vaccinale è molto lenta, con meno del 10% della popolazione immunizzato, e la gestione dei centri vaccinali è stata così male organizzata che Saied aveva ordinato all’esercito di prenderne il controllo, decisione che aveva innescato un pezzo della crisi politica che ha anticipato le decisioni del 25 luglio. La pandemia e la crisi economica hanno portato alla recessione più grave dall’indipendenza del Paese, nel 1956.
Le persone si sono riversate nelle strade, chiedendo giustizia e cambiamenti. Una grande manifestazione ha preceduto di poche ore il discorso di Saied e migliaia di cittadini sono scesi in strada per tutta la notte, dopo aver saputo delle sue decisioni, gridando inni contro Ennahda. I militari hanno sigillato il Parlamento impedendo l’ingresso ai leader politici mentre centinaia di sostenitori di Ennahda urlavano davanti all’Assemblea del popolo: «La gente vuole il Parlamento aperto».

Le proteste hanno evidenziato l’antica spaccatura che attraversa la scena politica del Paese: da un lato i sostenitori del presidente Saied, dall’altro quelli del partito islamista moderato Ennahda che dopo il 2011 si è imposto come la principale formazione politica. Ennahda è guidato da Rached Ghannouchi, che è presidente del Parlamento, ed esprimeva anche il primo ministro, Hichem Mechichi, prima che venisse esonerato da Saied. È proprio a partire dalla contrapposizione di queste due anime che si può in parte spiegare cosa stia accadendo nel Paese. I rapporti tra il presidente Saied e il leader di Ennahda Rachid Ghannouchi sono infatti profondamente peggiorati negli ultimi mesi, in particolare dopo che Saied si è rifiutato di autorizzare la nomina di diversi ministri a seguito di un rimpasto di Governo deciso dal primo ministro Mechichi. In quell’occasione Saied ha avocato a sé il diritto di veto, sebbene la Costituzione non lo preveda, e ha sostenuto che alcuni dei ministri proposti fossero corrotti. Complicato capire se Saied avesse davvero il potere di farlo perché la Corte Costituzionale, l’unico organismo super partes su queste questioni, non è mai stata completata. Vale la pena ricordare che Saied è un professore di diritto costituzionale, un outsider conservatore, che ha fatto della lotta alla corruzione uno dei cardini della sua azione politica. Saied ha vinto a sorpresa le elezioni del 2019, approfittando della disillusione dei tunisini nei confronti della classe politica.

Ora, dopo gli avvenimenti di domenica 25 luglio, il Paese è in uno stato di confusione, i detrattori di Saied parlano di un colpo di Stato costituzionale, i suoi sostenitori di una liberazione necessaria dalla corruzione di Ennahda. La frattura tra chi plaude il rovesciamento del primo ministro e chi lo definisce un golpe rievoca la storia recente di un altro Paese del Maghreb, l’Egitto, e precisamente quello che accadde nell’estate del 2014, quando l’esercito egiziano sfruttò un movimento di protesta contro il Governo di Mohamed Morsi – espressione della Fratellanza musulmana – per rimuoverlo, uccidere centinaia di sostenitori e imprigionare l’allora presidente che morì pochi anni dopo in carcere. Il sistema di governance tunisino sta per ora dimostrando di resistere alla tentazione restauratrice, ma è certo che questa spaccatura politica e quello che è di fatto un golpe costituzionale evidenziano con forza le influenze di altri attori regionali negli equilibri del Paese. Egitto, Emirati arabi uniti e Arabia saudita hanno infatti salutato l’annuncio di Saied con soddisfazione, essendo tutti storici antagonisti della Fratellanza musulmana. Dall’altra parte la Turchia, che invece sostiene la Fratellanza, si è detta allarmata dal ritorno di uno stato di polizia nel Paese.

Da questo punto di vista la posta in gioco è molto alta e le attuali tensioni suggeriscono dei cambiamenti regionali in atto. Dal 2019, quando è salito al potere, Saied ha stretto legami sempre più forti con l’Egitto e gli Emirati, seguendo una politica di tolleranza zero verso gli islamisti. Sarà quindi cruciale osservare le posizioni di questi Paesi ma anche la posizione che prenderà l’Europa, sempre più allarmata dal fenomeno migratorio che dalla Tunisia tocca le coste meridionali del Continente. Gli Stati europei sanno che una crisi politica devastante potrebbe inaugurare una nuova ondata di partenze e hanno storicamente preferito interloquire con un Governo forte che sembri sinonimo di stabilità, per questo non stupirebbe un sostegno dell’Unione europea a Saied, contro Ennahda.