L’isolazionismo di Donald Trump rischia di infliggere un costo tremendo sul popolo curdo. Ma insieme ai curdi che lottano per la sopravvivenza, il mondo intero deve interrogarsi su quel che significa l’abbandono della Siria settentrionale da parte di Washington. È un atto che va visto con due prospettive distinte. Da una parte, per l’impatto che ha all’interno degli Stati Uniti in una campagna elettorale che si è complicata ulteriormente da quando è aperta la procedura d’impeachment alla Camera.
D’altra parte bisogna chiedersi quale insegnamento la vicenda curda racchiude per la visione delle alleanze che distingue questa Casa Bianca. Un impero in declino, com’è chiaramente l’impero americano se osservato nei rapporti di forze relativi ad altre potenze, può rassegnarsi al proprio ridimensionamento o perfino accelerare la propria ritirata. Riducendo la propria presenza nel resto del mondo, taglia i costi e quindi tenta di premunirsi dal rischio di un «over-stretching» (dilatazione eccessiva: è la fine per collasso economico da spese militari di cui morirono l’Impero romano e quello britannico, fra tanti).
Al tempo stesso questa ritirata crea dei vuoti che altri riempiono: in certi casi a occupare gli spazi sarà la superpotenza rivale con ambizioni planetarie che è la Cina; in altri casi saranno delle sub-potenze regionali dal passato imperiale mai sopito, come la Turchia o la Russia, l’Iran o l’Arabia saudita o l’India. In quanto al risvolto interno nella campagna elettorale, bisogna essere lucidi: l’abbandono dei curdi ha creato negli Stati Uniti orrore e condanne tra le élite e l’establishment, sia di destra che di sinistra; ma probabilmente avrà un impatto minimo o perfino positivo sugli elettori.
La politica estera ha raramente appassionato durante le campagne elettorali, salvo in quei periodi in cui l’America era impegnata in guerre costose e prolungate come Vietnam e Iraq. L’idea di riportare i soldati americani a casa, disimpegnarsi dalle guerre residue, raccoglie ampie consensi non solo nell’elettorato trumpiano ma anche nella base democratica. Attenti dunque a non scambiare gli editoriali del «New York Times» o i commenti della Cnn con quel che pensa la maggioranza dell’elettorato.
«I curdi? Mica ci hanno aiutato nella Seconda guerra mondiale». Il video con questa frase di Donald Trump si fonde con le immagini tragiche dal fronte, dalla feroce offensiva militare turca contro quelli che furono alleati preziosi per l’America. Scaricati, abbandonati al loro terribile destino con una battuta surreale. Talmente sconcertante che qualcuno rilancia negli Stati Uniti il tema del 25esimo emendamento. Ovvero: non c’è bisogno di aspettare l’esito dell’impeachment, questo presidente va destituito prima, lo prevede la Costituzione in caso di «incapacità mentale» (è contemplato dal 25esimo emendamento, approvato dopo l’assassinio di John Kennedy, che per alcune ore prima di morire fu incapacitato da un proiettile al cervello; va ricordato comunque che con la destituzione il potere passerebbe nelle mani del vicepresidente Mike Pence).
L’accostamento tra i curdi e la seconda guerra mondiale sembra suggerire che il presidente degli Stati Uniti sia uno squilibrato. Di sicuro lo è se con questo alludiamo al suo carattere egomaniaco, narcisistico, privo di freni inibitori. Però per altri versi è nel possesso delle proprie facoltà mentali, anche quando usa un linguaggio provocatorio: con quella frase sulla Seconda guerra mondiale voleva irridere chi insiste sul ruolo essenziale dei curdi in una sfida decisiva per la sicurezza dell’America. Presa fuori dal suo contesto è un’uscita da manicomio. Ma il contesto è il Trump-pensiero espresso nel Trump-linguaggio, due universi con regole particolari.
Trump ci ha abituati a un’escalation verbale che ha calpestato e travolto ogni regola. Dal galateo diplomatico alla buona educazione, i suoi tweet hanno trasformato la figura presidenziale, allo statista hanno sostituito l’urlatore da talkshow, l’aggressore esibizionista da reality-tv. Razzismo, sessismo, insulti alla sovranità di altri Stati: tutto sembra lecito. L’insulto ai poveri curdi se ascoltato con una mentalità tradizionale può sembrare ai limiti della salute mentale (che c’entrano, davvero, con lo sbarco in Normandia?) ma ha una sua logica perversa.
Il tradimento dei curdi, che erano stati decisivi nella lotta contro un nemico mortale come i jihadisti dell’Isis, ha attirato accuse durissime su Trump. Non solo l’opposizione democratica, ma anche dei repubblicani trumpiani come il senatore Lindsay Graham o la sua ex amabasciatrice all’Onu Nikki Haley, e velatamente il Pentagono, hanno denunciato un errore dalle conseguenze incalcolabili. Perché sdogana un massacro e assolve Erdogan cancellando le sue offese alla Nato. Perché può porre le premesse di un rafforzamento nell’area di Assad e dell’Iran, o addirittura di una rinascita dell’Isis (le milizie curde fungono anche da carcerieri per i campi di detenzione dove sono prigionieri migliaia di jihadisti). Infine il segnale lanciato urbi et orbi, dal Giappone all’Europa, è che quest’America non riconosce amicizie o alleanze, può tradire, calpestare impegni e trattati di mutua difesa.
A queste accuse il «delirante» leader della massima superpotenza risponde con una serie di video e tweet che vanno collegati. Affermazioni come queste: «I curdi hanno combattuto al nostro fianco, ma noi li abbiamo strapagati per questo». «La guerra con l’Isis ormai l’abbiamo vinta». «Basta con le guerre interminabili e insensate».
Tutto rinvia al contratto originario fra Trump e i suoi elettori. Parte integrante di America First (che si può tradurre con «America numero uno», ma in realtà sta per «Prima l’America») è l’idea che gli Stati Uniti debbano concentrarsi sui bisogni della propria popolazione, che sono tanti e a lungo trascurati. Fare il gendarme del mondo non ha dato benefici commisurati ai costi enormi di una presenza «imperiale» nei quattro continenti. Trump perciò vuole mantenere la promessa di chiudere ogni guerra e riportare a casa tutti i soldati, o quasi. In quanto agli alleati, sono fungibili, ciascuno di loro viene valutato in un bilancio dei costi e benefici. È il mondo nel quale bisogna attrezzarsi a sopravvivere: stiamo assistendo alle prove generali di un ritiro dell’America dalla sua leadership – peraltro auspicato a lungo dai suoi tanti detrattori. C’è una coerenza nella follia di Trump, non basta fermarsi alla dimensione clinica.
Ridicolizzare il linguaggio di Trump o interrogarsi sulla sua salute mentale sono diversivi, con cui si evita di affrontare temi scomodi. Per esempio: l’Europa ha un «piano B», per il giorno in cui dovesse ridursi drasticamente la protezione militare americana? Senza l’ombrello nucleare degli Stati Uniti, senza le flotte Usa che mantengono la libertà di navigazione nel Mediterraneo, nel Golfo Persico, nell’Oceano Indiano e nel Mare della Cina, come faranno gli europei a garantire la propria sicurezza nei confronti di eventuali minacce russe o iraniane o cinesi?
Viene in mente l’estratto da una poesia di John Donne, che Ernest Hemingway usò come incipit del suo romanzo Per chi suona la campana. Quei versi suonano così: «Non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te». In questo caso la campana a morto dei curdi suona anche per gli europei, che devono interrogarsi sugli scenari geostrategici dei prossimi decenni. Anche quando Trump sarà fuori gioco – per impeachment o disfatta elettorale o fine di un secondo mandato – non è affatto certo che i suoi successori democratici o repubblicani vogliano fare un «reset» totale, cancellando ogni eredità trumpiana, chiudendo la parentesi isolazionista, per tornare esattamente al punto di partenza. Del resto non sappiamo bene quale sarebbe il punto di partenza auspicabile.
Nessuno ha nostalgia dell’America guidata dai neoconservatori, che spinsero George W. Bush all’invasione dell’Iraq: di fronte a quell’ultimo episodio delle avventure imperiali ci fu già uno strappo significativo nelle alleanze visto che la Germania di Gerhard Schroeder e la Francia di Jacques Chirac si dissociarono. L’America di Obama dava già segnali di ripiegamento. Di fronte ai bombardamenti chimici di Assad contro la popolazione prima Obama minacciò d’intervenire, poi perse credibilità rinunciando a colpire, perché convinto che il Congresso e l’opinione pubblica non lo avrebbero sostenuto.
Il «momento unipolare» nella storia contemporanea è stato breve: gli studiosi di geopolitica designano con questa espressione la fase in cui l’America parve godere di una leadership solitaria, assoluta e incontrastabile: è la fase che comincia con la caduta del Muro di Berlino (1989) e la dissoluzione dell’Urss (1991). Non vi è una data certa per segnare la fine del «momento unipolare», ma indicativamente possiamo usare la crisi economica del 2008-2009 in quanto risveglia una visione imperiale in Cina e un complesso di superiorità di Pechino verso l’Occidente; forse anche l’annessione della Crimea da parte di Vladimir Putin nel 2014 in quanto segna una rottura traumatica degli equilibri europei.
Ma all’interno della fase unipolare sappiamo bene che non regnava una stabilità assoluta: a cominciare dallo shock dell’11 settembre 2001 che mostrò quanto sia vulnerabile anche un impero solitario, se attaccato con metodi asimmetrici. È di quello shock che Trump trae a modo suo una lezione 18 anni dopo: stiamocene a casa nostra, ogni volta che abbiamo voluto mettere ordine nel mondo, il mondo si è vendicato contro di noi.