Trump taglia la testa all’Fbi

James Comey – Il presidente americano licenzia il capo dell’ente investigativo federale perché non avrebbe svolto bene il suo lavoro in relazione alle email segrete di Hillary. Nessun accenno al Russiagate, l’altra scottante inchiesta dell’Fbi
/ 15.05.2017
di Federico Rampini

Dopo la travolgente vittoria di Macron e la disfatta di Marine Le Pen, diventa legittimo avanzare l’ipotesi che sia stata la vittoria di Trump a segnare l’apice dei populismi. E che dopo di lui, forse per causa sua, sia iniziato un riflusso. In parte già la vittoria di Brexit aveva provocato un «pentimento»: molti elettori inglesi (giovani in testa) che erano rimasti a casa il giorno del referendum, capirono in seguito di avere fatto un errore e che le conseguenze di Brexit le avrebbero pagate anche loro.

L’avvento di Trump alla Casa Bianca ha avuto un impatto ancora più forte sulle opinioni pubbliche progressiste o anche moderato-centriste, in ogni caso globaliste. Vedere Trump in azione ha fatto misurare con mano agli europei quale può essere l’impatto di un iper-populista al governo. Fasce di cittadini che si erano distaccati dalla partecipazione politica ed erano delusi dai rispettivi partiti, hanno preso atto che un’alternativa c’è, ma non di loro gradimento. Lo spettacolo dei primi mesi di Amministrazione Trump, pur galvanizzando alcuni dei suoi elettori (che erano comunque in minoranza l’8 novembre) ha spaventato molti altri: l’incompetenza, l’improvvisazione, i primi rovesci subiti, tutto ciò ha fatto uscire i populismi dalla realtà virtuale e li ha resi terribilmente concreti. Dopo Trump si è votato in Olanda e in Francia, e ambedue le consultazioni hanno segnato battute d’arresto dei populismi europei. Gli scenari sul voto d’autunno in Germania sembrano indicare un ridimensionamento della minaccia dell’estrema destra, il ritorno a un’alternativa più tradizionale, tra cristiano-democratici e socialdemocratici.

Le ragioni che alimentano i populismi restano valide (i danni della globalizzazione, le tensioni della società multietnica) però il personale politico che essi esprimono sta provocando disillusioni. È ancora presto per formulare bilanci definitivi. I problemi che hanno contribuito a eliminare Hillary Clinton l’8 novembre – dalle diseguaglianze sociali all’impoverimento della middle class americana – restano tutti irrisolti. Quello che comincia a logorarsi è il fascino del dilettante che promette soluzioni facili.

Lo si è visto anche nella pasticciata vicenda in cui Trump ha decapitato l’Fbi, licenziando in tronco il suo capo, il potente e controverso James Comey. L’America precipita verso una crisi costituzionale, denuncia l’opposizione democratica. Il capo dei senatori democratici Chuck Schumer accusa il presidente d’intralciare un’inchiesta che lo stava accerchiando: sul Russiagate. Trump offre un commento secco sull’ex-capo dell’Fbi: «L’ho cacciato perché non stava facendo un buon lavoro». È rarissimo però che un presidente interrompa il mandato decennale di un capo dell’Fbi, che istituzionalmente non deve obbedire a ordini politici (l’unico precedente di un licenziamento fu con Bill Clinton nel 1993).

L’atmosfera di veleni diventa ancora più pesante quando si scopre un retroscena: poco prima di essere licenziato Comey aveva chiesto nuovi mezzi per portare avanti l’indagine sul Russiagate. È sempre il capo dei senatori democratici Schumer a insinuare: «Quell’indagine si stava avvicinando troppo al presidente?» In effetti l’Fbi continuava a stringere il cerchio attorno ai collaboratori più intimi di Trump e probabilmente allo stesso capo dell’esecutivo. Si accumulano le testimonianze – nelle audizioni parlamentari – che lo stesso Trump era al corrente dei traffici con Mosca da parte di Michael Flynn, il generale che lui volle come massimo consigliere per la sicurezza nazionale, per poi «scaricarlo» in seguito allo scandalo. Le gole profonde della Casa Bianca da tempo descrivono un presidente infuriato perché il clamore su quella storia non si placa. Sullo sfondo c’è – nelle parole di Schumer – «il sospetto che la Russia abbia impropriamente aiutato Trump a farsi eleggere». Se all’ingerenza russa si aggiunge il fatto che Trump l’8 novembre ebbe tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton, la legittimità di questo presidente è la più fragile nella storia degli Stati Uniti.

Ora che fine farà l’indagine sul Russiagate? Anzi le due indagini: quella di intelligence e polizia giudiziaria condotta per l’appunto dall’Fbi; e le audizioni già iniziate al Senato (che dipende però dall’Fbi in quanto alla raccolta di prove). I democratici a questo punto chiedono una vera e propria commissione d’inchiesta indipendente, con la nomina di un procuratore speciale che non abbia legami con l’esecutivo né con la maggioranza repubblicana.

Per divincolarsi dalla morsa dei sospetti, Trump ha usato contro Comey le stesse accuse che Hillary Clinton e il partito democratico hanno rivolto all’Fbi. Nella lettera di licenziamento al superpoliziotto non compare il Russiagate. Gli si rimprovera invece un «abuso di potere» nell’altra indagine politicamente scottante dell’Fbi: quella sulle «email segrete» di Hillary. Sia quando decise di chiudere le indagini nel luglio 2016, sia quando le riaprì inopinatamente pochi giorni prima dell’elezione, Comey avrebbe agito al di fuori del proprio mandato. In effetti la stessa Clinton ancora la scorsa settimana in una lunga intervista-confessione alla Cnn ha attribuito all’Fbi una parte di responsabilità nella sua sconfitta. Va ricordato anche il fatto che Comey era un repubblicano, mosse i primi passi della sua carriera sotto la guida di due personaggi di destra, Rudolph Giuliani alla procura di New York e poi John Ashcroft ministro della Giustizia di George W. Bush.

La crisi c’è, l’ennesima di una lunga serie in solo quattro mesi di presidenza Trump. Ma di qui a parlare di impeachment, ce ne corre. Non è un caso se nessun presidente americano ha mai subito un vero impeachment. Solo due ci arrivarono vicini, Andrew Johnson (1868) e Bill Clinton (1998), ma anche loro alla fine si salvarono. Nixon si dimise da solo, per lo scandalo Watergate. Il fatto è che il procedimento che sfocia nell’interdizione è complicato. La Camera – che oggi ha una solida maggioranza repubblicana – deve chiedere la nomina di un super-procuratore («independent prosecutor» o «special counselor») che avvii un’indagine istruttoria sul presunto reato del presidente.

In questo caso l’ipotesi più scabrosa e inaudita potrebbe essere alto tradimento, se Trump ha consapevolmente lasciato che i suoi collaboratori tramassero con Vladimir Putin per influenzare la campagna elettorale, nominando poi uno dei putiniani nell’incarico strategico di guidare il National Security Council. Ma il supermagistrato incaricato dell’indagine verrebbe comunque designato dal Dipartimento di Giustizia, che obbedisce allo stesso Trump. Se l’istruttoria del procuratore punta verso la colpevolezza, è di nuovo un voto della Camera che deve incriminare il presidente. A quel punto il processo passa al Senato che diventa un tribunale. Presieduto da un giudice vero, per l’occasione: il capo della Corte suprema. Anche lui repubblicano, guarda un po’. E perché l’impeachment scatti, alla fine il Senato stesso dovrà votare la condanna del presidente con una supermaggioranza dei due terzi. Oggi il Senato ha una maggioranza repubblicana, 52 seggi su 100 appartengono al partito del presidente.

L’idea che gli stessi repubblicani vogliano disfarsi di Trump è suggestiva. I segnali di insofferenza si moltiplicano. La vecchia destra conservatrice – che già aveva subìto con orrore questo candidato outsider e anti-establishment – non tollera che sia stato eletto con l’aiuto dei russi, i nemici di sempre. Però di congiure repubblicane per eliminare Trump si è fantasticato durante tutta la campagna elettorale. Al dunque lui ha sempre avuto la meglio sugli avversari. La base più militante continua a preferire lui rispetto ai notabili dell’establishment. Una congiura di palazzo sarebbe probabilmente un suicidio politico per il Grand Old Party.

Per smorzare gli entusiasmi di chi vede un’impeachment dietro l’angolo, ancora due dettagli. Primo: il capo dell’Fbi era inviso ai democratici, la sua gestione dell’indagine sulle email segrete di Hillary fu dissennata; se oggi fosse lei presidente probabilmente lo avrebbe licenziato. Secondo: l’America non è una Repubblica parlamentare, niente ribaltoni dei premier né elezioni anticipate, il mandato presidenziale dura comunque quattro anni. Se dovesse sparire Trump, a fine mandato ci arriva il vicepresidente Pence, più reazionario di lui.

Molte cose possono cambiare fra 18 mesi. Nel novembre 2018, se alle elezioni legislative di mid-term i democratici saranno capaci di un’avanzata travolgente, riprendendosi una maggioranza nei due rami del Congresso, i nuovi rapporti di forze renderebbero meno inverosimile lo scenario dell’impeachment. Anche qui, però, attenzione all’aritmetica: il Senato si rinnova solo per un terzo dei seggi, rendendo ardua l’ipotesi di una super-maggioranza democratica. Certo, una volta avviato il procedimento dell’impeachment, quand’anche non arrivasse al termine, servirebbe a tenere il presidente sulla graticola, riducendone autorità e capacità di manovra. Un vero procuratore indipendente avrebbe di che sbizzarrirsi con indagini a 360 gradi. Il Russiagate è solo uno dei terreni d’indagine, poi ci sono i molteplici conflitti d’interessi tra il capo-azienda e il capo della nazione; le dichiarazioni fiscali mai divulgate che possono trasformarsi in miniere di notizie. Però ci vogliono altri rapporti di forze al Congresso, e i democratici se li devono prima conquistare tra gli elettori. Per ora la sinistra non ha né la nuova leadership che occorre né una strategia chiara che non si limiti a denunciare le malefatte di Trump.