Il discorso integrale di Donald Trump al Congresso


Trump, svolta moderata

Il discorso al Congresso – Il presidente americano ha lanciato un messaggio ottimista in stile Obama dopo che all’Inauguration Day aveva evocato «carneficine»: «Pensiamo alle meraviglie se liberiamo i sogni del nostro popolo»
/ 06.03.2017
di Federico Rampini

Una spinta al riarmo che può accelerare la crescita americana ma anche rilanciare una nuova guerra fredda. Meno tasse e meno regole sulle imprese per stimolare la competitività del made in Usa. Deregulation estesa a Wall Street «smontando» la riforma di Barack Obama, con nuovi rischi di bolle speculative. E naturalmente il protezionismo, che può frenare una globalizzazione già in fase di stallo. È questo lo scenario su cui bisogna ragionare, per valutare le conseguenze di Donald Trump.

«Pensate alle meraviglie che possiamo realizzare se liberiamo i sogni del nostro popolo». Donald Trump nel suo primo discorso al Congresso a Camere riunite ha abbandonato i toni dark, parlando perfino di speranza come faceva un certo Barack Obama. «È finito il tempo in cui si pensava in piccolo. Le contese meschine sono alle nostre spalle».

Dietro la novità di stile c’è anche un po’ di sostanza. Trump offre dei deal, degli affari, un po’ a tutti: certo alla sua maggioranza repubblicana, ma c’è anche qualcosa per l’opposizione democratica, e per gli alleati europei (sia pure in un discorso dove in 60 minuti la politica estera è quasi del tutto assente). Anche se i democratici devono fare muso duro perché la base vuole un’opposizione a oltranza, Trump gli lancia due temi di comune interesse. «Mille miliardi di investimenti in infrastrutture», è un obiettivo simile ai programmi elettorali di Hillary Clinton e Bernie Sanders. E grazie a Ivanka Trump fa capolino il «congedo parentale retribuito», roba da welfare europeo ma raro privilegio nelle aziende americane, un’altra idea che proponeva Hillary. C’è perfino un accenno – molto vago – ad una «riforma positiva sull’immigrazione» che secondo i più ottimisti può preludere a qualche tipo di sanatoria per alcune categorie di immigrati irregolari, magari selezionando i più qualificati. Resta però il muro col Messico, ed un’accelerazione delle espulsioni di clandestini.

Agli europei Trump regala un inatteso disgelo sul tema delle spese militari. Aveva polemizzato più volte su quel Patto Atlantico dove il grosso degli oneri li sostengono i contribuenti americani mentre gli europei si godono una sicurezza pagata da altri. Trump annuncia che il suo messaggio è stato ricevuto dagli europei «e già stanno affluendo nuovi finanziamenti». Non è vero, ma chi se ne accorgerà? Trump canta vittoria, dichiara missione compiuta, tanto i suoi elettori non controllano.

Ai repubblicani lui riserva il grosso dei suoi regali. C’è ovviamente la demolizione della riforma sanitaria di Obama («un disastro che sta implodendo»), un tema sacro per il Tea Party e la destra più oltranzista. Al posto di Obamacare? «Più scelta, meno costi, e cure migliori». È dai tempi di Lyndon Johnson, 1964, che ci provano tutti e nessuno ci riesce. Dietro la vaghezza dei propositi spunta quel che piace ai repubblicani: ulteriore privatizzazione di un sistema già ultra-privato. Deducibilità fiscale a fronte delle tariffe assicurative esose: un sistema che favorisce i redditi medioalti.

«Massiccio sgravio fiscale». Qui siamo in pieno revival di Ronald Reagan. Dolce musica per le orecchie dei repubblicani. E tuttavia è proprio su questo terreno che i lavori parlamentari riservano incognite e pericoli. Tasse e spese le vota il Congresso, non il presidente. C’è una robusta ala di falchi anti-deficit nella destra, che nel 2011 e 2012 arrivarono vicini a paralizzare il bilancio federale e strapparono da Obama varie misure di austerity tra cui i tagli automatici, a pioggia, una mannaia che non risparmia neppure le spese militari. A costoro bisognerà fare ingoiare il «riarmo più grande della storia» nonché il maxi-piano per ammodernare le infrastrutture fatiscenti. I mercati vogliono credere che Trump farà un miracolo, e il Dow Jones ha polverizzato un nuovo record storico, superando anche la barriera dei 21’000 punti.

Le ragioni dell’euforia dei mercati – finché dura – sono legate proprio agli scenari di politica economica che Trump preannuncia, promuove, promette. Se Trump mantiene le promesse abbiamo di fronte una robusta re-flazione, un’iniezione di spesa pubblica e uno sgravio fiscale che possono dare una spinta notevole alla crescita, peraltro già superiore da molti anni a quella europea. Donde l’attrattiva di investire negli Stati Uniti, tanto più che una re-flazione di questo genere dovrebbe puntellare la forza del dollaro, ormai quasi a parità con l’euro (dai minimi in qui era sceso alcuni anni fa, di 1,50 dollari per euro). E non basta. Bisogna ancora aggiungere la promessa di una deregulation a tutto campo per le imprese, in particolare uno smantellamento/semplificazione delle normative ambientali. Il via libera agli oleodotti che Obama aveva bloccato. La demolizione almeno parziale della Dodd-Frank, la legge sui mercati finanziari con cui Obama aveva imposto restrizioni alle attività più speculative delle banche. Non è un caso se fra i titoli più premiati dai rialzi post-elettorali ci siano i bancari e gli energetici.

 «Dobbiamo ricominciare a vincere le guerre». Così Trump giustifica il boom della spesa militare, 54 miliardi aggiuntivi al Pentagono in un anno, il 10% di aumento degli stanziamenti bellici, un record storico in tempo di pace. Ma quali guerre vuole «ricominciare» a vincere, tenuto conto che Obama gliene ha lasciate in eredità così poche? I «rimasugli» di Afghanistan e Iraq, più gli interventi «chirurgici» giustificati in chiave anti-terrorismo e per lo più affidati a droni o commando, reparti speciali, poche migliaia di uomini? Perché lanciare un riarmo generalizzato, con massicci aumenti di forze armate, di navi e di cacciabombardieri, più un ambizioso programma di ammodernamento degli arsenali nucleari? 

Tutto questo, poi, con una presidenza dichiaratamente isolazionista, un Trump che dice: «Rispondo solo agli americani, non sono stato eletto dal resto del mondo, non esiste una bandiera mondiale né un inno mondiale». «America First», il suo slogan elettorale, lui lo ha spesso declinato in questo mondo: smettiamola di andare in giro per il mondo a raddrizzare torti, a fare i gendarmi, a spegnere conflitti altrui, occupiamoci di ricostruire un’America a pezzi. Strappo con una tradizione neo-imperiale che in chiave aggressiva o progressista ha unito Wilson e Roosevelt, Nixon e Reagan, Kennedy e Obama. Ma allora perché il riarmo a tutto campo? Quale nuova guerra fredda ha in mente Trump?

Una spiegazione è elettorale. Trump si vanta di avere avuto consensi plebiscitari nelle forze armate. Gli conviene curarsi la simpatia di quelle «tute mimetiche» che sono state a lui favorevoli quanto i colletti blu. Poi c’è l’ideologia nazionalista, il vero collante delle sue politiche. «America First» si concilia con una deterrenza a 360 gradi, che scoraggi qualunque nemico dell’America dal tentare manovre ostili. E qui colpisce la discrezione nelle reazioni dalle due capitali più coinvolte, Mosca e Pechino.

Vladimir Putin forse si sta chiedendo se sia stato un buon investimento favorire l’elezione di Trump. Quando a Mosca qualche esponente di secondo piano dice «risponderemo al riarmo Usa», scatta il paragone con l’epoca Reagan-Gorbaciov: oggi come allora, Mosca non ha un’economia in grado di sostenere spese militari come quelle americane. Una delle ragioni per cui l’Urss andò al collasso fu lo sforzo per tener dietro al riarmo reaganiano. In questo caso sarebbe Trump a «vedere il bluff» di Putin, che ha saputo recuperare influenza geostrategica negli ultimi anni, ma si regge su un’economia debolissima. Il Pil della Russia è inferiore a quello dell’Italia o della Corea del Sud, poco superiore a quello della Spagna. È un miracolo che Mosca riesca ad apparire come una superpotenza alla pari della Cina quando il suo reddito nazionale è una frazione di quello cinese.

In quanto alla Cina, i suoi bilanci militari in effetti stanno crescendo a ritmi «trumpiani», anzi ben superiori al 10% annuo, e da molti anni. Nonostante questo, il livello tecnologico e la proiezione globale delle forze armate cinesi resta molto indietro. La retorica militarista di Trump è basata sull’assunto che le forze armate della prima superpotenza mondiale siano state «debilitate» dalla cura Obama. In realtà gli esperti continuano ad assegnare agli Stati Uniti una forza bellica che è superiore a quella delle cinque o sei potenze successive addizionate fra loro. Debilitata? In passato, soprattutto negli anni Settanta (Vietnam) e all’inizio del nuovo millennio (Afghanistan, Iraq) si fece strada la teoria dell’overstretch. Questa teoria ammoniva sul rischio di una dilatazione eccessiva dell’impero americano, fino a raggiungere dimensioni e costi insostenibili rispetto alla capacità dell’economia Usa. La teoria dell’overstretch si arricchiva di paragoni storici con altri imperi, da quello romano a quello britannico. Altre interpretazioni indicavano che le guerre perse dall’America (Vietnam, in parte anche i risultati disastrosi dell’invasione in Iraq) non lo sono state per mancanza di risorse militari, bensì per errori politici.

L’ideologo che ispira Trump, Stephen Bannon, ha preso la sua visione del mondo da un libro del 1997, The Fourth Turning: An American Prophecy di Neil Howe. Libro apocalittico ma non nel senso religioso, propone una visione della storia americana (e mondiale) con grandi cicli di Rinascite e Distruzioni, guerre ineluttabili seguite da ricostruzioni economiche ed anche etico-politiche. Oggi secondo Howe ci sono le condizioni per il prossimo ciclo catastrofico, la Quarta Svolta, che potrebbe includere anche un nuovo conflitto mondiale. La lettura che ne dà Bannon fornisce una chiave possibile per il riarmo di Trump: il mondo è un caos, l’America è circondata di nemici, oltre a elevare muri di ogni genere, è meglio che a guardia delle fortificazioni ci sia una potenza spaventosa.