Trump-Putin, nemici loro malgrado

La strana coppia – Il prossimo vertice fra i due leader consacrerà il disgelo fra Stati Uniti e Russia?
/ 26.03.2018
di Lucio Caracciolo

Se non fosse il capo della Russia Vladimir Putin sarebbe il partner perfetto degli Stati Uniti d’America. Leader di una grande potenza in declino demografico, dagli scarsi e comunque non strategici rapporti economico-commerciali con gli Usa, incapace dunque di minacciarne il primato planetario. Allo stesso tempo, potenza sufficientemente influente e decisa, oltre che dotata di un ragguardevole apparato militare e di una diffusa rete diplomatica, per dare una mano al Numero Uno in importanti scenari di crisi: dal contenimento della Cina alla lotta contro il terrorismo islamista, dal controllo della Germania, e in genere di qualsiasi attore capace di aggregare attorno a sé una Europa coesa e troppo ambiziosa, al Medio Oriente. Insomma, sulla carta, e a un freddo sguardo strategico nulla osterebbe, oggi, alla cooperazione fra Washington e Mosca.

Inoltre, l’attuale presidente degli Stati Uniti nutre una sincera simpatia nei confronti del leader russo. Del quale lo attraggono i modi freddi e decisi, la chiarezza degli obiettivi, l’affidabilità e la coerenza nel perseguirli, l’autorevolezza. Per Donald Trump, secondo il quale la politica come il resto della vita è dominata dalla logica del deal, dell’affare da gestire one-to-one, in un faccia a faccia nel quale si gioca a carte scoperte e nel quale vincerà sempre il più forte – cioè lui – Vladimir Trump sarebbe dunque controparte ideale. Utile strumento per avanzare i propri obiettivi. 

Putin ne era consapevole fin da quando Trump si candidò alla presidenza degli Stati Uniti contro Hillary Clinton, da sempre sua nemica personale, oltre che esplicita russofoba. Sicché decise di appoggiarlo con tutti i mezzi disponibili, anche con quegli opachi strumenti di influenza cibernetica e finanziaria oggetto dell’inchiesta dell’Fbi che minaccia la stessa permanenza di Trump alla Casa Bianca. 

Tutto questo lasciava pensare non solo a un rapporto personale intenso e di fiducia fra i leader dei due Paesi, ma anche a un avvicinamento geopolitico fra Stati Uniti e Russia dopo i lunghi anni di crisi, specie in seguito all’invasione della Georgia (2008) e alla presa russa della Crimea (2014). Il rapporto personale, malgrado tutto, resiste. Lo confermano la calorosa telefonata di congratulazioni di Trump a Putin dopo la rielezione di quest’ultimo alla presidenza della Federazione Russa e la preparazione, già in corso, di un nuovo vertice fra i due capi, particolarmente centrato sul contrasto della proliferazione nucleare e della corsa agli armamenti, come anche sulla Siria e sulla repressione dei movimenti jihadisti. Eppure nemmeno il nuovo incontro a due Putin-Trump segnerà una svolta effettiva nelle turbolente relazioni russo-americane. Perché?

La risposta è semplice: il presidente degli Stati Uniti non decide da solo, e nemmeno in misura determinante, delle relazioni internazionali del suo Paese. Egli vi partecipa, certamente, e in casi speciali – emergenze di vario genere, o comunque durante una guerra, da comandante in capo delle Forze armate – è effettivamente in condizione di orientarne la rotta, sia pure solo nel breve periodo. Ma di norma no. Molto più rilevanti sono gli orientamenti del Congresso – cui spetta in fine di allocare le risorse finanziarie pubbliche – e degli apparati, a cominciare dall’intelligence (Cia su tutte le altre innumeri agenzie) e dal Pentagono, mentre il Dipartimento di Stato svolge un ruolo ancillare, oggi particolarmente ridotto. Ora, tutti questi poteri, oltre alla sempre influente opinione pubblica, sono concordi nel considerare la Russia nemico permanente. E Putin capo di una potenza espansiva, imperialistica e particolarmente brutale. Contro questa realtà di fatto Trump non può molto, al di là delle sue migliori intenzioni verso il potenziale partner Putin. Ciò che fra l’altro rafforza la sua invidia per i poteri della sua controparte russa, assai più estesi dei propri.

Ogni Stato, come ogni organismo vivente, ha una sua memoria storica, magari irriflessa ma potente. Nella memoria storica degli Stati Uniti non c’è più da tempo la breve alleanza di guerra contro Hitler (quattro anni), ma la ben più persistente avversione ideologica e geopolitica inaugurata con la rivoluzione d’Ottobre (1917), la nascita dell’Unione Sovietica (1922) e l’affermazione del comunismo, ovvero di un’ideologia e di una conseguente geopolitica del tutto incompatibili con lo stile di vita e con gli interessi americani. Questo patrimonio ideologico-geopolitico è succhiato con il latte materno dalla quasi totalità degli apparati che costituiscono lo Stato profondo americano. Di qui la permanente ostilità verso i russi – la differenza fra Russia e Unione Sovietica è impercettibile se non inesistente, ai loro occhi – e verso il loro capo. Tanto più che quest’ultimo, in quanto ex agente del Kgb, appartiene alla loro stessa gilda, solo a colori rovesciati. Fra uomini dell’intelligence e delle burocrazie della forza la diffidenza reciproca è naturale.

Non sappiamo se e quando Trump e Putin potranno incontrarsi e quale tipo di intesa a due vorranno e sapranno imbastire. Sappiamo però con sufficiente approssimazione che questa verrà in ogni caso sabotata, quanto meno depotenziata, dallo Stato profondo americano. Con il pieno consenso del Congresso, dell’intelligence, dei media – social e/o mainstream – e dell’establishment in genere. Putin e con lui i dirigenti russi che inizialmente puntavano tutto su un’intesa semiparitaria con Washington, dovranno prendere atto di essersi sbagliati. E di essere perciò condannati alla insincera ma per ora efficace intesa con gli odiati partner cinesi. Nella speranza che un giorno, per miracolo, l’America cambi opinione sulla Russia, magari proprio sotto la pressione della minaccia cinese.