La strage di Khan Shaykhun, cittadina del Nord-Ovest siriano, provocata secondo i ribelli da un attacco chimico a opera dell’aviazione di Bashar al-Assad, ha riportato l’attenzione mediatica sul massacro infinito che dal 2011 infuria in ciò che resta della Siria. Ma soprattutto ha scatenato l’immediata reazione degli Stati Uniti che nella notte di giovedì hanno lanciato da due navi americane di stanza nel Mediterraneo 59 missili cruise verso la base aerea siriana da cui si presume sia partito l’attacco con armi chimiche (foto). Nell’annunciarlo durante una conferenza stampa lampo, Trump ha detto che al-Assad ha ignorato gli avvertimenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu. E ha lanciato un appello affinché «tutte le nazioni civili si uniscano a noi nel cercare la fine del massacro e dello spargimento di sangue in Siria, e anche la fine del terrorismo di tutti i tipi».
Sembra che gli Stati Uniti siano tornati ad essere il gendarme del mondo, sarà la svolta per la Siria? Limitiamoci per ora ad analizzare lo scenario strategico in cui si compie questa guerra. Con una premessa: il caos sul terreno è totale, al punto che gli stessi combattenti non sono spesso in grado di distinguere chi hanno di fronte. La confusione è poi accentuata dalla diffusione di bande criminali, che prosperano sulle disgrazie altrui e traggono lauti profitti dalla continuazione del conflitto, attraverso ogni genere di traffici. L’unica certezza è l’entità del massacro: almeno 300 mila morti, forse molti di più, 8 milioni di sfollati interni, 5 milioni di profughi (di cui almeno un paio di milioni in Turchia, bloccati dal fragile accordo Merkel-Erdoğan), su una popolazione stimata attorno ai 23 milioni prima della primavera del 2011, inizio della tragedia.
La prima dimensione strategica del conflitto riguarda l’inestinguibile ostilità fra Arabia Saudita e Iran. Stati nemici, per almeno tre ordini di motivi.
Anzitutto, la politica: per Riyad la rivoluzione islamica del 1979, come qualsiasi dinamica politica interna al mondo musulmano, è minaccia esistenziale. Motivo per il quale i sauditi detestano a pari titolo i Fratelli musulmani, colpevoli di voler azzardare qualche forma di democrazia islamica.
In secondo luogo, l’etnia: arabi contro persiani. Niente di più diverso e di meno conciliabile.
Infine, la confessione: gli iraniani sono in grande maggioranza sciiti, e si offrono come leader di un arco di correligionari esteso dal Mediterraneo al Golfo Persico, fino all’Asia centrale; i sauditi sono sunniti, aderenti alla versione radicale del wahhabismo, e si intitolano la leadership dei loro affini in tutto il mondo arabo, ma anche oltre. Di più, una corposa minoranza sciita abita la provincia orientale del regno. E la corte saudita la considera una quinta colonna iraniana, trattandola di conseguenza.
Di questo incrocio di rivalità la Siria è il punto di caduta. Il regime di Bashar al-Assad è infatti riconducibile a quella che i sunniti considerano una variante particolarmente deplorevole dello sciismo, la molto esoterica setta alauita. Inoltre, anche per questo Damasco è considerata da Teheran una pedina assai utile, pur se non pienamente affidabile, per estendere la propria sfera d’influenza verso il Mediterraneo.
Alla coppia Iran-Arabia Saudita occorre sommare, sul teatro siriano, un altro strano duetto, quello formato da Russia e Turchia. La prima è scesa in campo con al-Assad e i suoi protettori iraniani – rafforzati dalle formazioni militari dello Hezbollah libanese – per varie ragioni: segnalare il suo rango di potenza mondiale, distinguersi dagli americani per la fedeltà agli antichi sodali (la famiglia al-Assad è da quasi sempre nella sfera di Mosca), ottenere basi militari sul Mediterraneo. La seconda, oggi provvisoriamente legata ai russi, ha promosso con i sauditi la guerriglia contro il regime di Damasco, nella speranza di ricostituire un suo piccolo impero neo-ottomano nel Levante arabo.
Sullo sfondo, le potenze occidentali, in prima linea Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, hanno cavalcato la rivolta siriana per mettere in difficoltà l’Iran, loro avversario (anche in quanto nemico di Israele). E per questo hanno supportato non solo i ribelli «moderati», ma anche gruppi jihadisti che appartengono alla galassia di al-Qaeda, e inizialmente hanno tollerato lo stesso Stato Islamico.
Chi vince e chi perde? Fino a giovedì vinceva al-Assad e con lui i suoi sponsor esterni, anzitutto Russia e Iran. Perdono i ribelli di ogni colore, a partire dallo Stato Islamico e da altri gruppi jihadisti. E con loro Arabia Saudita, Turchia e le potenze occidentali. Resta da stabilire ora in che misura l’attacco di Trump cambierà i rapporti con al-Assad, fino ad ora accettato come realtà di fatto, con cui fare i conti per una soluzione politica e per combattere lo Stato Islamico.
Il punto è semmai che cosa resterà della Siria. In senso materiale – alcune città sono semidistrutte, compresa la un tempo splendida Aleppo. Sotto il profilo umano, stante che gran parte della popolazione è fuggita. Vero che molti siriani in esilio amerebbero rientrare in patria, ma in quali case? Con quali prospettive?
Sotto il profilo geopolitico, la Siria è finita per il tempo prevedibile. Al suo posto, ammesso che le armi si plachino in tempi non estremi, una costellazione di feudi, probabilmente amministrati da potentati e milizie locali. Si possono già oggi individuare diverse macroregioni, di cui la principale è l’Alauistan, o «Siria utile», tra l’asse Damasco-Aleppo e il mare. Al-Assad avrà pure vinto, ma la Siria, e i siriani, hanno straperso.