Poiché l’America, nell’opinione generale, è un impero in tutto fuorché nel nome, il presidente della Repubblica ne sarebbe l’imperatore. Errore. Il potere negli Stati Uniti non è affatto concentrato nella Casa Bianca e certamente ancora meno nel suo capo formale. Lo stabilirono i padri fondatori a fine Settecento, lo ha confermato la storia fino a oggi. E ora più che mai questo paradigma è incarnato nella figura di uno dei presidenti più deboli che la superpotenza abbia mai esibito al mondo: Donald Trump.
C’è un rapporto inversamente proporzionale fra l’ego di Trump, autocelebratosi quale «genio stabile», e la sua influenza sulle politiche del paese più importante del pianeta. Non solo per i vincoli costituzionali e per la prassi politico-istituzionale, basata sul bilanciamento fra poteri diversi e a volte contrapposti sia a livello federale che nei singoli Stati dell’Unione. Anche, in misura crescente e sempre più visibile, nella sfiducia dell’establishment americano e della stessa amministrazione federale nel portabandiera saltuariamente residente alla Casa Bianca.
Risultato: mentre il mondo tende a valutare l’America e le sue intenzioni ascoltando i rumorosi interventi di Trump e studiandone i frenetici quanto memorabili tweet, gli Stati Uniti vanno da tutt’altra parte. Esempio: fosse per il presidente, Usa e Russia sarebbero buoni partner, avendo in comune, secondo lui, l’avversione per il mondo islamico e il jihadismo, il timore della crescita in potenza della Cina, una certa preferenza per la razza bianca e per il cristianesimo, sia pure di marca diversa. Per Trump poi Putin è il modello di quel che lui vorrebbe essere ma non può diventare: il vero centro del potere nazionale (imperiale).
Ma tutti gli apparati e le istituzioni americane che contano tendono a vedere nel capo del Cremlino il nemico per antonomasia. Non fanno troppo differenza fra Urss e Russia. Considerano – a ragione – la Federazione Russa l’unico Stato oggi in grado di distruggere (autodistruggendosi) gli Stati Uniti con un attacco nucleare e/o cibernetico. E comunque una potenza storicamente animata da sentimenti ostili verso l’America, fondata su valori intrinsecamente opposti a quelli cari alla repubblica a stelle e strisce.
La rappresentazione plastica della contrapposizione sorda fra il presidente e la sua amministrazione si è avuta all’ultimo vertice Nato, quando gli sherpa degli alleati europei hanno ricevuto direttamente dagli omologhi americani il testo delle dichiarazioni finali, che andavano in senso specularmente opposto a quello immaginato da Trump: non smantellamento dell’Alleanza, ma rafforzamento della presenza americana in Europa in chiave di contenimento della Russia e di controllo sulla Germania, dove sono stati appena indirizzati altri 1500 militari, gesto altamente simbolico della permanente sfiducia che a Washington si nutre per gli «alleati» tedeschi.
Più in generale, tutto lo Stato profondo americano, sempre diviso da istinti e interessi corporativi e talvolta privati, sembra aver messo sotto tutela il presidente. Pentagono, CIA, FBI, Dipartimento di Stato, della Giustizia e del Tesoro – per citarne i principali – vegliano affinché Trump non faccia troppi danni. Di recente, il «New York Times» ha ospitato la deprimente testimonianza di un «senior official» attivo alla Casa Bianca il quale descriveva Trump come semideficiente, narciso, simpatizzante per autocrati asiatici e via insultando. Il suo ex consigliere economico ha descritto la scena in cui, profittando di un momento (frequente) di latitanza del presidente, ha sottratto dalla sua scrivania un documento che avrebbe fatto saltare un importante accordo commerciale con la Corea del Sud, storico quanto sempre meno affidabile alleato degli Stati Uniti. Nelle librerie americane fanno furore i saggi, come l’ultimo libro di Bob Woodward, che descrivono dall’interno lo stato comatoso in cui versa l’amministrazione.
Trump sarà dunque uno dei rari presidenti a svolgere un solo mandato? O forse dovrà essere sottoposto all’onta dell’impeachment? Presto per dirlo. Le elezioni di mezzo termine, a novembre, ci diranno fino a che punto il partito repubblicano avrà convenienza a non prendere le distanze in modo definitivo da Trump. Possibile che la Camera dei rappresentanti – ma non il Senato – torni in mani democratiche. Di qui a immaginare la fine prematura dell’esperienza presidenziale di The Donald moltissimo ne corre. Ma in ogni caso, l’effetto sarebbe molto minore di quel che si pensa, considerando quel che si è appena osservato circa i poteri effettivi del presidente.
Certo che il caos nella cabina di regia dei poteri americani non giova alla credibilità e all’affidabilità del Numero Uno. Rivali e alleati, forse sopravvalutando questa crisi, o forse no, stanno prendendo per quanto possibile contromisure unilaterali. E stanno rivedendo strategia e tattica alla luce del percepito declino americano. Connettendo, in un filo visibile, l’11 settembre al crollo di Lehman Brothers e allo spettacolo abbastanza discutibile della Casa Bianca trumpiana. Sul fronte americano, i poteri che contano, a cominciare dal Congresso, faranno di tutto per dimostrare che le esibizioni del presidente non significano affatto declino, ma solo parentesi, nemmeno troppo rilevante.