L’attenzione di mezza America la settimana scorsa non era sui problemi giudiziari di Trump: la tv di destra Fox News apriva i suoi telegiornali sul feroce assassinio di una studentessa da parte di un giovane clandestino immigrato dal Messico in Iowa. Questo serve a ricordarci gli effetti della «bolla mediatica» in cui viviamo: ciascuno assorbe notizie dal proprio mondo di riferimento, universi paralleli coesistono senza conoscere l’esistenza l’uno dell’altro.
Per l’altra metà dell’America il personaggio della settimana non era l’immigrato assassino bensì Michael Cohen. Dal cerchio magico degli intimi, al girone infernale dei nemici: è stata rapida la parabola dell’uomo che potrebbe trascinare il presidente degli Stati Uniti verso l’impeachment. 52enne, l’avvocato Cohen è stato per 12 anni il «fixer» (letteralmente «l’aggiustatore», il risolvi-grane) dell’immobiliarista newyorchese. Oltre che affarista in proprio, evasore fiscale, ecc. ecc. Con incarichi svariati ma vicinissimi al tycoon: non solo legale personale di Trump ma vicepresidente di due società familiari e della fondazione filantropica intitolata al figlio.
È in questo ruolo di trafficante tuttofare con l’incarico di affrontare i pasticci più intricati, che Cohen ha pagato la pornostar Stormy Daniels perché tacesse sulla «notte di sesso» con Trump. Ha anche pagato in modo tortuoso un tabloid perché bloccasse le rivelazioni di un’altra pornostar. Questi pagamenti costituiscono un reato federale e dopo la confessione Cohen rischia (salvo sconti) dai quattro ai cinque anni di carcere. Ha coinvolto la responsabilità del presidente: non solo quei soldi venivano da Trump, ma lui stesso ordinò il reato e quindi è a sua volta colpevole.
Questa è una vicenda in cui si è imbattuto per caso il super-inquirente Robert Mueller, che l’ha stralciata e affidata ai giudici federali di New York, visto che esula dal suo mandato sul Russiagate. Trump continua a smentire di aver ordinato i pagamenti alle porno-star. Ma se arriverà il momento in cui la sua parola e quella di Cohen verranno messe a confronto, c’è il rischio che l’ex-avvocato abbia dalla sua un bel po’ di prove: a cominciare dalle date dei trasferimenti di fondi con cui la società di Trump gli fornì l’occorrente per tacitare Stormy Daniels. Trump ha già disseminato menzogne via Twitter, ha dato versioni contraddittorie di cui alcune palesemente false. Finché le bugie viaggiano sui social media non hanno rilevanza da impeachment. Ma «perjury under oath», cioè la menzogna in una deposizione sotto giuramento, è reato da impeachment. È la buccia di banana su cui scivolò Bill Clinton. Fare sesso con una giovane adulta consenziente (Monica Lewinski) non è reato, ma lo incastrarono in modo quasi fatale – la Camera votò l’impeachment – sulle bugie con cui cercò di occultare l’episodio.
Dopo questi sviluppi l’impeachment di Donald Trump è diventato possibile (non ancora probabile). Gli sviluppi drammatici dei processi ai suoi ex-collaboratori, offrono per la prima volta l’appiglio concreto per avviare la messa in stato d’accusa e poi la destituzione del presidente degli Stati Uniti. Un evento mai portato a termine nella storia, e con due soli precedenti di impeachment iniziati, non conclusi.
Giuridicamente il presidente è passibile d’incriminazione per associazione a delinquere (e altro). La giurisprudenza prevalente – ancorché non unanime, e la Corte suprema non si è mai pronunciata in merito – sostiene che un presidente in carica non può essere incriminato, potrà essere processato solo alla fine del suo mandato; donde il neologismo coniato ai tempi di Richard Nixon quando per lo scandalo Watergate il presidente repubblicano fu definito un-indicted co-cospirator cioè «reo di associazione a delinquere ma non incriminato». Nixon si cacciò nei guai in altri modi e nel 1974 diede le dimissioni prima che lo destituissero.
Il presidente in carica può essere solo soggetto al procedimento di impeachment. Che è un processo politico, vista la sede dove si svolge e l’importanza dei rapporti di forze. La Camera a maggioranza semplice può metterlo sotto accusa e formulare l’istruttoria; se decide d’incriminarlo, al Senato spetterà il ruolo di tribunale giudicante ma qui occorre una supermaggioranza dei due terzi. È poco probabile che i democratici nell’elezione di mid-term (6 novembre) conquistino i due terzi del Senato. L’ala sinistra è tentata d’impostare la campagna sul tema «votateci e vi libereremo da Trump prima della fine del mandato»
La vecchia guardia centrista rimarrà titubante a usare la parola che comincia con la «I». Non solo teme che l’impeachment sia destinato ad arenarsi per mancanza di voti (il che si ritorcerà contro una neomaggioranza democratica inconcludente). Temono anche che il lungo processo spettacolare possa consentire a Trump di atteggiarsi a martire fra la sua base, ponendo le premesse per una rielezione nel 2020. Anche se i paragoni sono impropri, la popolarità di Bill Clinton aumentò durante la sua procedura d’impeachment (venne votata alla Camera la messa in stato di accusa; poi fu assolto al Senato).
Tutto può ancora cambiare – soprattutto in peggio per Trump – a seconda di quel che deciderà Mueller. Infatti finora non stiamo minimamente parlando del Russiagate. Le vicende Manafort e Cohen sono state stralciate, sono filoni d’indagine paralleli che nulla hanno a che vedere con la Russia. Clinton/Lewinski insegna: spesso i guai per il presidente arrivano perché l’inquirente chiamato a indagare su una pista, s’imbatte accidentalmente in tutt’altra fattispecie di reato. Per non parlare del rischio che un presidente sotto pressione menta in una deposizione giurata. È la ragione per cui i legali di Trump hanno il terrore di un suo interrogatorio a tu per tu con Mueller.
«Se arriva l’impeachment crollerà il mercato, e tutti saranno più poveri». Questo monito di Trump attira l’attenzione sul fatto che il rialzo di Wall Street ha ormai battutto tutti i record storici per la sua durata, è il SuperToro che polverizza ogni precedente. E questo rimane un punto di forza per lui: si avvia verso le elezioni legislative del 6 novembre con un’economia solidissima, la crescita al 4%, la disoccupazione ai minimi. È prematuro darlo per spacciato, anche se ha subito due colpi giudiziari che avrebbero messo k.o. molti altri presidenti.
Il presidente e il suo partito sono partiti alla controffensiva. Trump ha giocato in casa facendosi intervistare dalla Fox News di Rupert Murdoch, rete televisiva che più amica non si può. Trump ha questa linea difensiva: io non c’entro, è tutto un complotto giudiziario. Su Manafort ha ragione, l’ex direttore della sua campagna elettorale è stato condannato per grossi reati fiscali e finanziari compiuti nella sua carriera di affarista, non per azioni legate a Trump. Su Cohen l’argomento del presidente è questo: i pubblici ministeri lo ricattano facendo leva sui suoi reati, per estorcergli qualcosa contro di me. È una tattica negoziale antica e arcinota, non certo una sorpresa per Trump che da immobiliarista e bancarottiere seriale fu un assiduo frequentatore della giustizia americana.
Il partito repubblicano fa quadrato attorno al suo presidente. Il Grand Old Party si è convinto addirittura che conviene impostare proprio sull’impeachment la campagna in questi ultimi due mesi e mezzo prima delle legislative. Cioè: gli strateghi repubblicani hanno sentore che la minaccia di un impeachment può essere la motivazione più forte per mobilitare la base e ottenere un’alta affluenza alle urne, in modo da limitare le dimensioni della rimonta democratica al Congresso. Il paradosso di Trump è che una maggioranza di americani lo detesta, ma la minoranza che lo ha votato sembra essergli ancora molto fedele.