Nell’ottica di Donald Trump si potrebbe riassumere così il bilancio degli ultimi dieci giorni: due passi avanti, un passo indietro. Visto dal resto del mondo, probabilmente è l’esatto contrario. Sta di fatto che il presidente ha incassato una sconfitta seria quando ha dovuto ritirare il suo progetto di contro-riforma sanitaria perché gli mancavano dei voti repubblicani al Congresso. Poi ha reagito con due mosse che rappresentano la realizzazione di altrettante promesse elettorali: il primo passo verso la costruzione del Muro anti-immigrati col Messico; e lo smantellamento delle leggi ambientaliste di Barack Obama.
Il disastro sulla sanità ha ricadute politiche e di sostanza. Cominciando dalla seconda: gli americani si tengono Obamacare. Quell’imperfetta riforma del 2010 ha allargato la platea degli assicurati con quasi 20 milioni di cittadini che per la prima volta hanno avuto il rimborso dell’assistenza medica e ospedaliera. Inoltre è stato vietato alle compagnie assicurative rifiutare dei clienti «perché già ammalati in passato», una pratica che prima era corrente. Obamacare ha costi elevati, però, in certi casi a carico delle aziende, in altri dei cittadini stessi come utenti delle polizze o come contribuenti. Non ha calmierato i prezzi: né le tariffe assicurative, né quelle medico-ospedaliere, né i prezzi dei farmaci. Obamacare ha aggravato i costi per alcune categorie ma tra i beneficiati ci sono redditi medio-bassi per i quali le sovvenzioni pubbliche coprono parte dell’assicurazione.
La dimensione politica è dirompente per Trump. Finora si era urtato ai «nemici» prevedibili: la stampa, l’opposizione democratica, i giudici, i governi stranieri urtati dalle sue gaffes. La débacle sulla sanità invece lo mette contro i suoi, spacca la destra, pone le premesse per feroci regolamenti di conti tra la base più aggressiva e i parlamentari che non hanno mantenuto le promesse. E getta un’ombra sulla presunta capacità del tycoon immobiliare di rinnovare i metodi di Washington. Trump fece campagna come l’outsider per eccellenza, l’anti-politico, il nemico della casta parlamentare, colui che avrebbe messo in riga deputati e senatori. Vantò la sua abilità di negoziatore, sul modello del suo best-seller The Art of The Deal, promise di applicare al mondo politico i metodi decisionisti del businessman. È scivolato su una prova fondamentale. Lo smantellamento di Obamacare era un trofeo simbolico. Molto prima che Trump entrasse in politica, il movimento populista del Tea Party lo aveva preceduto dal 2009, con le prime manifestazioni di protesta che avevano segnato il revival della destra. I bersagli del Tea Party erano i banchieri di Wall Street salvati a spese del contribuente; e la riforma sanitaria Obamacare. Al dunque, i deputati repubblicani si sono divisi tra l’ala intransigente (Freedom Caucus) che voleva spazzare via tutto Obamacare; e la componente moderata che voleva salvare gli aspetti più popolari, sia pure con dei costi per il bilancio pubblico.
Fresco reduce da quella disfatta, Trump all’inizio della scorsa settimana ha fatto quello che gli riesce meglio: ha cambiato discorso. È passato ad altri aspetti della sua agenda, più adatti a ricucire la sua immagine almeno tra i fedelissimi. Ha messo a punto la richiesta del primo stanziamento al Congresso per costruire la fortificazione promessa al confine col Messico. Un pezzettino iniziale: 62 miglia (100 chilometri), sono la tratta per la quale il ministero competente (Department of Homeland Security) richiederà un miliardo di dollari. Un costo elevato, per una modesta prolunga del Muro che già c’è. È poca cosa rispetto all’idea originaria – più volte ripetuta da Trump in campagna elettorale – di una Grande Muraglia da oceano a oceano, dalle rive californiane del Pacifico fino all’altra estremità del confine messicano dove il Texas è bagnato dalle acque del Golfo del Messico che sono parte dell’Atlantico. Inoltre la promessa di far pagare il conto ai messicani per ora rimane una sparata da comizio. È al contribuente americano che viene presentata la fattura, visto che è al suo Congresso che Trump chiede lo stanziamento di questi primi fondi.
Martedì scorso è arrivato un altro colpo all’eredità obamiana, stavolta riuscito nei suoi intenti distruttivi: Trump ha cancellato di fatto l’adesione americana agli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Senza mai nominarli, li ha svuotati nella loro applicazione, da parte della potenza economica leader (nonché seconda nazione per emissioni carboniche dopo la Cina). Anche se l’opposizione – dagli Stati a governo locale democratico come la California, alle grandi organizzazioni ambientaliste come il Sierra Club – già prepara una guerriglia di resistenza a base di ricorsi presso tutte le sedi di giustizia.
Trump ha voluto distruggere l’ambientalismo del suo predecessore in una cerimonia spettacolare, a cui ha invitato una delegazione di minatori del carbone: «Voglio ringraziarvi perché avete attraversato tempi duri. Ma da oggi creiamo nuovi posti di lavoro grazie alle energie fossili. L’America ricomincia ad essere vincente, con gas e petrolio». Lo strumento è un decreto presidenziale intitolato Energy Independence Order. Pur di raggiungere l’autosufficienza energetica la nuova Amministrazione toglie ogni restrizione alle emissioni di CO2, vuole dare libertà di trivellare ovunque. «È finita l’intrusione del governo – ha proclamato Trump – perché quelle regolamentazioni uccidevano il lavoro. Celebriamo una nuova èra per l’energia americana». A differenza di quanto è accaduto finora per l’immigrazione, qui siamo ben oltre gli effetti-annuncio. L’ambiente è un terreno sul quale buona parte delle riforme di Obama avvennero proprio usando i poteri regolamentari dell’esecutivo – anche attraverso l’authority federale che è l’Environmental Protection Agency (Epa). Obama usò spesso lo strumento dell’ordine esecutivo perché durante sei dei suoi otto anni di presidenza la destra comandava al Congresso e non gli avrebbe approvato nulla.
Quindi oggi è più facile per Trump cancellare con un tratto di penna i decreti presidenziali del suo predecessore. L’elenco delle distruzioni è lungo, sostanzioso. Si comincia con il Clean Power Plan che imponeva l’abbattimento delle emissioni carboniche da parte delle centrali elettriche: revocato. Basterebbe questo per dire addio agli accordi di Parigi: la riduzione delle emissioni di CO2 da parte delle centrali era cruciale perché gli Stati Uniti rispettassero gli impegni presi con la comunità internazionale. Trump abolisce anche le restrizioni che Obama impose sulle trivellazioni costiere, sui permessi di sfruttare miniere nelle terre di proprietà pubblica (federale), sulle emissioni di metano dagli oleodotti. Infine la deregulation cancella quelle «valutazioni d’impatto ambientale» che potevano rallentare e ostacolare le grandi opere infrastrutturali. Si torna indietro di otto anni e forse anche di più. Per certi aspetti il balzo all’indietro riporta agli anni Settanta, perché fu un presidente repubblicano, Richard Nixon, a creare quell’Environmental Protection Agency di cui Trump sta smantellando i poteri.
Trump ha scelto l’ambiente per tentare un rilancio della propria immagine dopo l’umiliante disfatta sulla contro-riforma sanitaria. È su un terreno più sicuro, gioca in casa. Da un lato la destra repubblicana sposa le tesi negazioniste – rifiuta le schiaccianti prove scientifiche sul ruolo dell’inquinamento carbonico nel cambiamento climatico – fin dai tempi di George W. Bush, altro presidente allineato con la lobby carbo-petrolifera. D’altro lato Trump premia una categoria operaia a cui deve voti decisivi per la sua elezione: i minatori, così come i metalmeccanici dell’auto, si sono sempre sentiti penalizzati dalla svolta verde del partito democratico. Mantenendo le sue promesse in questo campo Trump si ri-accredita come l’uomo giusto per i petrolieri e per gli operai. Rispolvera i temi del nazionalismo economico che gli sono cari: «Torniamo a vincere».
L’autosufficienza energetica è un obiettivo popolare. Negli ultimi anni in realtà la produzione domestica di energia era già aumentata in modo notevole. In parte grazie alle fonti rinnovabili, sostenute da Obama. Ma un’altra ragione è quella rivoluzione tecnologica (fracking e trivellazioni orizzontali) che hanno reso competitive riserve come lo shale gas. Al punto che l’America ha superato la Russia nell’estrazione di gas, e potrebbe arrivare a superare l’Arabia Saudita nel petrolio. Da anni ormai gli Stati Uniti non importano più una goccia di petrolio dal Golfo Persico, le loro importazioni sono prevalentemente dal Canada e dal Messico. Hanno perfino ricominciato ad esportare.
Salvo che la caduta delle quotazioni del greggio ha reso meno redditizio lo sfruttamento di quelle risorse fossili che Trump vuole rilanciare. A contrastare la contro-rivoluzione carbonica di Trump oggi non ci sono solo gli ambientalisti; c’è anche una dinamica di mercato che rende il carbone troppo caro, e il petrolio meno redditizio di una volta. Non a caso l’85% degli Stati Usa stavano applicando senza troppe resistenze gli obiettivi fissati da Obama. Ora quegli obiettivi vanno in fumo, letteralmente. E Trump regala alla Cina un ruolo politico inatteso, quello della maggiore potenza economica rimasta fedele agli accordi di Parigi.