Donald Trump ha interrotto il suo vertice bilaterale con Angela Merkel al G20 di Osaka, per commentare il dibattito televisivo tra i candidati democratici. Maleducazione a parte, il presidente è gongolante. I suoi alleati europei o asiatici (che lui si ostina a maltrattare) lo sono un po’ meno, presumibilmente. Gli uni e gli altri al momento vedono risalire le probabilità di rielezione di Donald Trump nel 2020. L’avversario che finora nei sondaggi supera sistematicamente Trump, l’ex vicepresidente Joe Biden, è uscito indebolito dal primo test. Biden è apparso esattamente quello che è: un signore molto anziano, che a 76 anni appare il più vecchio di tutti i candidati pur avendo un anno meno del 77enne Bernie Sanders, e solo tre più del 73enne Trump. Si capisce che il presidente in carica si sia sentito sollevato. Alla prima prestazione televisiva Biden è apparso spesso incerto, senza grinta, ogni tanto ha perso il filo. Per affrontare una belva feroce come Trump non sembra all’altezza. Inoltre, com’era prevedibile, Biden ha sofferto la dannazione classica del favorito.
Gli altri democratici lo hanno attaccato più volte, soprattutto sul suo passato. Per chi ha una carriera politica così lunga alle spalle, è facile trovare qualche scheletro nell’armadio, e a Biden non mancano. Votò a favore della guerra in Iraq come Hillary Clinton, per esempio. L’attacco più duro è venuto dalla star della seconda serata, la senatrice della California Kamala Harris. Forse in assoluto la vincitrice delle due serate tv. La Harris, com’era scontato, essendo per metà afro-americana (l’altra metà, di parte materna, è indiana) ha attaccato Biden sul tema del razzismo. Gli ha rinfacciato di aver negoziato – sia pure in un passato lontano – delle alleanze di voto con senatori segregazionisti.
Lo ha accusato anche di non avere sostenuto la politica del «busing», cioè quei trasferimenti in autobus scolastico dai quartieri neri verso i quartieri bianchi, con cui negli anni Sessanta cominciò la de-segregazione forzosa del sistema scolastico, per mescolare una popolazione di allievi che era separata su basi razziali. Ma la politica del «busing» è molto controversa anche nella base democratica. Kamala Harris può fare il pieno di voti afro-americani e al tempo stesso scontentare una parte della base bianca del partito; è la trappola etnica nella quale Barack Obama fu sempre attento a non cadere.
Se l’impressione dei primi dibattiti tv è che forse sta già declinando la stella di Biden, al di là della sua età o stanchezza questo si spiega anche con altri fattori. La fotografia del partito democratico, come si ricava da questi 20 candidati, si è spostata molto più a sinistra. Su molti temi – tassare i ricchi, passare a un sistema sanitario pubblico sul modello europeo, cancellare i debiti studenteschi e offrire l’università gratuita, varare una sanatoria per gli immigrati clandestini – prevalgono tra i candidati più popolari le posizioni radicali. Bernie Sanders appare meno originale: la sua campagna sembra un bis di quella del 2016, ha perso il vantaggio della novità, e molti (molte) gli fanno concorrenza per pescare voti nell’ala sinistra dell’elettorato. Biden il moderato è per forza in difficoltà in questa dinamica. L’altro fattore che pesa è il forte rinnovamento: generazionale, etnico, di genere. Mai c’erano state così tante donne, giovani, e candidati di colore. Kamala Harris faceva la scuola media quando Biden era già senatore.
Due candidati sono trentenni, sette sono quarantenni. Fa eccezione la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, settantenne anche lei; ma con un sapore di novità essendo alla sua prima candidatura per la nomination. La Warren figura nella pattuglia di donne che sono uscite bene dai primi duelli tv; insieme alla Harris e a Kirsten Gillibrand, senatrice di New York. Forse un po’ troppo professorale, ma estremamente competente sui temi economici e sociali, la Warren insidia Sanders nella sua stessa base giovanile e radicale. Sempre all’insegna della diversità, hanno fatto una eccellente figura il gay dichiarato Pete Buttigieg (sposato con un uomo), e il senatore afroamericano del New Jersey, Cory Booker.
Trump gongola non solo per la prestazione sbiadita di Biden ma anche per la sterzata a sinistra del partito democratico. Dal G20 il presidente ha subito polemizzato, per esempio, sul fatto che molti candidati dem vogliono estendere l’assistenza sanitaria agli stranieri senza permesso di soggiorno, e depenalizzare l’immigrazione clandestina. Trump sa che queste posizioni possono essere vincenti alle primarie – dove partecipa soprattutto la fascia più militante e radicale – ma possono alienare una parte dell’elettorato democratico nella votazione finale. Trump sa bene che ai democratici basterebbe riconquistare tre Stati in cui lui vinse di strettissima misura (la Pennsylvania che conquistò con uno scarto di 44’000 voti su Hillary Clinton, il Michigan con soli 10’000 voti, il Wisconsin dove passò per 25’000 voti), per riprendersi la Casa Bianca. Sono proprio quegli Stati del Midwest dove gli spostamenti in favore di Trump avvennero nella classe operaia bianca, molto moderata.