Donald Trump negli ultimi giorni prima del voto si è riscoperto capace di una campagna stile 2016: l’outsider contro il politico di mestiere. La linea di attacco più efficace contro Joe Biden l’ha sfoderata nel duello televisivo andato in onda giovedì 22 ottobre da Nashville nel Tennessee: perché non hai fatto le cose che hai promesso, negli 8 anni in cui eri vicepresidente, o durante i 47 anni della tua carriera politica? È un attacco semplicistico, e il ruolo dell’outsider sta stretto a chi occupa la Casa Bianca, ma probabilmente è una tattica più efficace delle accuse personali sulla «corruzione» del candidato democratico o di suo figlio. Sanità, immigrazione, razzismo: su questi terreni Trump ha rinfacciato a Biden le riforme non realizzate, o deludenti, dei periodi in cui governavano i democratici e Joe era vicepresidente o un senatore della maggioranza. È uno dei punti deboli di un politico che calca il palcoscenico di Washington da quand’era trentenne.
Su due di questi punti – razzismo e immigrazione – Trump spera di rosicchiare qualche consenso tra i neri moderati (quella middle class che diffida di Black Lives Matter) o tra gli ispanici di successo, anche loro spaventati dal prevalere di frange estreme come i «no border» di Alexandria Ocasio-Cortez. Anche un’erosione di minuscole frazioni nei consensi delle comunità afroamericane ed ispaniche verso il partito democratico, può avere conseguenze.
L’ultimo dibattito televisivo è stato meno indecoroso del primo ed anche più equilibrato. Si è potuto sentire un confronto sugli argomenti e sulle proposte. Trump è chiaro sulla priorità di questa fase: per lui è riaprire l’economia e rilanciare la crescita, più che combattere la pandemia. Sul cambiamento climatico lui è convinto che penalizzare le energie fossili ha un costo insopportabile in termini di occupazione. Ha descritto i piani dell’avversario come troppo costosi, socialisti, inevitabilmente forieri di stangate fiscali sulla maggioranza dei contribuenti.
In politica estera si è vantato di aver evitato nuove guerre, di aver incassato una tregua negli esperimenti nucleari della Corea del Nord, di aver favorito il disgelo tra Israele e una parte del mondo arabo. Biden è stato efficace nella requisitoria contro gli errori commessi da questo presidente sul Coronavirus: i messaggi contraddittori, la tendenza a minimizzare, la sfiducia verso i suoi stessi consiglieri scientifici. Ê meno chiaro quale sia il suo piano alternativo. È stato vincente nella difesa di Obamacare, quella riforma sanitaria che i repubblicani ancora sperano di smantellare grazie alla Corte suprema: la più grave delle conseguenze sarebbe di restituire alle compagnie assicurative la libertà di scegliersi i clienti, escludendo con ogni probabilità gli ammalati di Covid.
Sulla Cina e la Russia, Biden ha promesso di tornare a lavorare d’intesa con gli alleati: una buona notizia per gli europei. L’ex vice di Barack Obama è riuscito a presentarsi come il presidente di tutti gli americani; colui che capisce le sofferenze di chi ha perso il posto di lavoro o un familiare ucciso dalla malattia. Ha rinfacciato a Trump l’incapacità di varare una nuova manovra di aiuti statali per famiglie e imprese in difficoltà. Si è dovuto destreggiare con qualche equilibrismo fra le proposte della sua ala più radicale – come il divieto totale di estrarre gas e petrolio attraverso il fracking – e la necessità di non perdere voti negli Stati energetici come la Pennsylvania.
Biden non era nella sua serata più felice in quanto a forma fisica, ha avuto momenti di incertezza, si è ingarbugliato più di una volta. Trump è stato aiutato – involontariamente – proprio da un formato a lui ostile e da una moderatrice severa: gli hanno fatto un favore impedendogli di debordare nella gazzarra. I democratici canteranno vittoria comunque, non foss’altro che per un dato: quasi 50 milioni di elettori hanno già votato prima di vedere il duello in tv, ed è difficile che in quelle schede già spedite o consegnate in anticipo ci sia una maggioranza per Trump.
Il partito repubblicano continua a sperare, aggrappandosi ad alcuni segnali in controtendenza, tra un mare di sondaggi favorevoli a Biden. Una speranza gliela fornisce Nancy Pelosi, la presidente democratica della Camera, che ha mandato una email allarmata: «Urgente. I repubblicani sono davanti a noi nel registrarsi per il voto negli Stati-chiave». In America non basta essere cittadini per votare, bisogna fare atto d’iscrizione nei registri degli elettori. Il dato che segnala la Pelosi nella sua email indica un sorpasso dei seguaci di Trump nelle aggiunte recenti alle liste dei votanti.
Qualcosa di simile sembra accadere nel voto postale: in generale sono i democratici a usarlo di più (anche perché sono i più sensibili al rischio di contagio), ma in alcuni Stati in bilico di recente c’è stata un’avanzata delle schede spedite da repubblicani. Un altro dato pro-Trump lo segnala un esperto di campagne elettorali, quel Karl Rove che fu lo stratega di George W. Bush. «I democratici sono nervosi – dice – perché a questo punto della campagna nel 2016 Hillary aveva margini di vantaggio superiori in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, rispetto a quelli di Biden». Si tratta di tre «battleground States»o Stati contesi, che possono fare la differenza. Biden è in vantaggio, sì, ma ipotizzando che i sondaggisti ripetano gli sbagli di quattro anni fa, il suo margine è al di sotto della sicurezza. Infine ci sono alcune risposte contraddittorie che sembrano gettare il dubbio sull’attendibilità delle rilevazioni demoscopiche.
Negli stessi sondaggi nazionali che danno per favorito il candidato democratico, spesso gli intervistati rispondono di «stare meglio oggi rispetto a quattro anni fa». Questa, pur non essendo una risposta diretta sul voto, in passato di solito si traduceva in consensi verso il presidente uscente in quanto la sua azione di governo sarebbe associata a un miglioramento nel tenore di vita. Una leggera maggioranza di americani sembra convinta – forse astraendo dall’impatto finale della pandemia – che il primo mandato di Trump le sia stato favorevole.
Sempre sull’economia c’è un altro indicatore controverso. Per ben cinque volte in questa campagna elettorale il sondaggio del «Wall Street Journal» ha chiesto agli elettori chi sarebbe il miglior presidente per governare l’economia e trascinarci fuori dalla crisi; cinque volte la risposta ha premiato Donald Trump con margini ampi (dai 7 agli 11 punti di vantaggio). «La maggioranza degli elettori – osserva sullo stesso giornale Gerald Seilb – sembra condividere il giudizio di Trump: l’economia era in ottima forma prima del Covid e non è colpa sua se è piombata in crisi con la pandemia». Sempre quel sondaggio del quotidiano economico ha continuato a chiedere quale sia il tema più importante su cui orientano il loro voto, e le risposte hanno messo l’economia al primo posto.
Come si spiega allora che lo stesso campione di intervistati alla fine dà una maggioranza di voti a Biden? Seilb ricorda che accadde la stessa cosa alle ultime elezioni legislative di mid-term (novembre 2018) ed anche nelle presidenziali del 2012 in cui Obama venne rieletto sconfiggendo Mitt Romney. Gli elettori dicono di mettere l’economia al primo posto e danno generalmente più fiducia ai repubblicani su questo terreno, ma hanno in mente altri temi la cui rilevanza influisce anche sull’economia. Quest’anno sembra essere il caso per la gestione del Coronavirus.
Infine c’è la contraddizione più stridente: in molti sondaggi che esprimono una maggioranza di consensi per Biden, il rapporto di forze si rovescia quando si chiede «chi vincerà». A quel punto esce favorito il presidente. È come se una quota di democratici, pur decisa a sostenere il loro candidato, non creda alla sua vittoria finale. Trump ha colto al volo questo segnale: «È perché sanno come votano i loro vicini di casa».
Biden ha già vinto almeno una gara, quella per la raccolta fondi. Invertendo una tradizione consolidata, è lo sfidante ad avere più soldi del presidente in carica. I democratici entrano nel rettifilo degli ultimi giorni con un vantaggio che si traduce nella capacità di acquisto di spazio televisivo. Il mercato degli spot quest’anno polverizza un record: le due campagne hanno già speso un miliardo di dollari per la pubblicità televisiva soltanto nei «battleground States». La campagna di Trump e il Republican National Committee hanno annunciato di aver raccolto contributi per 248 milioni nel mese di settembre. È un dato che in altri tempi sarebbe stato eccellente, ma quest’anno viene surclassato da Biden e dal Democratic National Committee, che hanno raccolto 383 milioni nello stesso mese. Rispetto a Trump, però, anche la campagna della Clinton nel 2016 era più ricca.