Trump agita le acque del Golfo

Medio Oriente – Il presidente americano ha applaudito all’iniziativa di Riad di isolare diplomaticamente ed economicamente il Qatar, accusato di finanziare i gruppi islamisti legati all’Iran. Ma all’origine del blocco vi è la storica rivalità tra le due super-potenze regionali: Arabia Saudita e Iran, di cui Teheran sta facendo le spese dopo l’attacco al parlamento e al mausoleo di Khomeini
/ 12.06.2017
di Marcella Emiliani

Per l’Iran gli attentati che il 7 giugno scorso hanno colpito il parlamento e il mausoleo dell’imam Khomeini a Teheran sono stati l’equivalente di quelli alle Torri gemelle e al Pentagono per gli Stati Uniti del fatidico 11 settembre del 2001. Non per il numero di morti: negli Usa le vittime furono quasi 3000, a Teheran 13. Ma lo shock che hanno provocato, mutatis mutandis, è stato lo stesso, soprattutto per il valore altamente simbolico degli obiettivi presi di mira. Il Majlis, il parlamento iraniano, fin dalla rivoluzione del 1979 è sempre stato propagandato dal regime degli ayatollah come il simbolo più alto della «democrazia islamica», l’unico esempio anzi di democrazia islamica, che con la democrazia che conosciamo noi non ha davvero niente a che spartire, ma ne rispetta comunque i riti e le scadenze sotto la ferula di una cupola religiosa che monopolizza tutto il potere reale riassunto nella Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei.

La formula della democrazia islamica come il suo principio ispiratore, il diritto del clero a governare (velayet-e-faqih), sono state solo due delle «luminose» invenzioni dell’icona della rivoluzione stessa, l’ayatollah Khomeini, il cui mausoleo a Teheran è diventato il terzo luogo santo dello sciismo dopo quelli di Ali e Hussein, rispettivamente a Najaf e Kerbala in Iraq. L’Iran inoltre è stato colpito proprio nel momento in cui poteva presentarsi alla comunità internazionale come una potenza regionale ormai consolidata, in grado di influenzare le sorti della stabilità del Medio Oriente dopo aver contribuito a combattere in prima persona l’Isis e a mantenere al potere in Siria il regime di Bashar al-Assad assieme agli Hezbollah libanesi e alle milizie sciite addestrate ed armate da Teheran in Iraq che – volente o nolente – gravita nella sua orbita fin dal 2003.

Dietro la lotta al terrorismo sunnita dell’Isis, anzi, l’Iran ha creato la sua Mezzaluna sciita che si disegna sull’arco Iraq-Siria-Libano col favore della Russia di Putin, altro poderoso puntello di Bashar al-Assad, e grazie alla riconciliazione internazionale seguita all’Accordo sul nucleare del 2015 siglato coi 5+1 (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Germania). L’Iran, insomma, aspettava solo di godere i frutti di tanti sforzi compiuti per affrontare a piè fermo lo scontro che più lo impensierisce, quello con l’Arabia Saudita per la supremazia nel Golfo. E invece gli attentati del 7 giugno scorso, compiuti da squadre di kamikaze e rivendicati dall’Isis, hanno mostrato la sua vulnerabilità che può essere foriera di ulteriori conflitti nello stesso Iran e in tutto il Medio Oriente.

Sul fronte interno a farne le spese nell’immediato sarà il neo-rieletto presidente Rouhani, che intendeva aprire ulteriormente il Paese sul piano internazionale e salvaguardare – per quanto possibile con Trump alla Casa Bianca – proprio l’Accordo sul nucleare e il ritiro completo delle sanzioni. L’economia iraniana, infatti, è in grave sofferenza e, con l’aria che tira, difficilmente gli investitori si affretteranno a investire in un Paese che rischia di entrare in un periodo di pesanti turbolenze. Ma soprattutto si farà ancora più duro lo scontro tra Rouhani e il clero conservatore, uscito sconfitto dalle elezioni del 19 maggio scorso, che affinerà le armi in vista delle uniche elezioni che contano davvero in Iran, quelle della Guida della rivoluzione per designare il successore di Khamenei ormai anziano e gravemente malato.

Sicuramente si inasprirà, infine, anche il braccio di ferro con l’anima militare del regime rappresentata dal lider maximo dei Pasdaran, Qasem Soleimani, capo delle brigate Quds e della macchina da guerra iraniana in tutta la regione. Fin dalla campagna elettorale di Trump, Soleimani intendeva alzare i toni e mostrare i muscoli contro gli Stati Uniti, ora sarà difficile tenergli testa dopo che l’immarcescibile presidente Usa, nel suo recente viaggio a Riad, non solo ha cementato l’alleanza americana con l’Arabia Saudita, ma ne ha fatto proprie le priorità indicando nell’Iran il peggior pericolo per la stabilità del Medio Oriente e il principale sponsor del terrorismo islamico. D’altronde è significativo che il 7 giugno scorso mentre ancora i terroristi dell’Isis venivano braccati dentro l’edificio del Majlis, i parlamentari cantassero all’unisono: «Morte agli Stati Uniti!».

Certamente non si può accusare Trump di avere «spinto» l’Isis a compiere attentati in Iran. Da tempo il Califfato promette morte al regime degli ayatollah e molto probabilmente è riuscito ad arruolare terroristi o all’interno della minoranza araba del Khuzestan iraniano o della minoranza baluchi del Sistan iraniano da anni in guerra col regime. È ancora presto per dirlo. Ma è innegabile che la demonizzazione dell’Iran operata da Trump ha «tranquillizzato» l’Arabia Saudita. Arabia Saudita che sull’onda della visita del presidente americano ha deciso di serrare le fila della compagine sunnita mediorientale in funzione anti-iraniana (la cosiddetta Nato araba) provvedendo a tagliare i ponti con il piccolo Qatar, accusandolo non solo di finanziare e armare il terrorismo islamico sunnita e sciita (leggi Isis, Hamas, Fratelli musulmani in specie egiziani e Hezbollah libanesi), ma anche e soprattutto di intendersela con l’Iran. E ha letteralmente imposto l’isolamento del Qatar anche ad Egitto, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, cui si sono aggiunti lo Yemen del presidente Hadi (non certo quello controllato dagli Houthi), il governo libico di Tobruk e le Maldive.

In realtà il Qatar nei confronti dell’Iran mantiene da anni rapporti estremamente pragmatici perché condivide col paese degli ayatollah immensi giacimenti di gas nel Golfo. Quello che davvero oppone Riad a Doha è il ruolo di «battitore libero» che l’emiro del Qatar, Tamin bin Hamad al Thani – wahhabita tanto quanto i Saud, ma più moderno e machiavellico della gerontocrazia saudita – si è ritagliato nella regione, non ultimo col soft power della sua creatura mediatica: al Jazeera. Quanto a finanziare il terrorismo islamico, scagli la prima pietra chi non l’ha fatto tra Arabia Saudita, Iran e Qatar, per non parlare degli Emirati Arabi Uniti. Resta il fatto che, mentre l’Isis sta per essere sconfitto a Raqqa e Mosul, riesce a colpire impunemente in Europa, Asia e Medio Oriente. Con gli attentati in Iran, poi, ha acceso una miccia che rischia di incendiare l’intero Golfo.