Qualche commentatore parla già di una nuova partita che la Russia vuole aprire in Libia sul modello della Siria, e nel Regno Unito un articolo del «Sun» ha sollevato il panico affermando che Mosca vorrebbe prendere il controllo della costa libica per riversare sull’Europa una nuova ondata di migranti dall’Africa. A inquietare particolarmente è stata la recente visita a Mosca del generale Khalifa Haftar, che ha condotto negoziati con il ministro della Difesa russo Serghey Shoigu, uno dei personaggi più potenti del regime del Cremlino. Non è la prima volta che Haftar visita Mosca, e un anno fa in segno di trattamento speciale era stato addirittura fatto salire a bordo dell’unica portaerei russa, Admiral Kuznetsov, dalla quale ha tenuto una videoconferenza con Shoigu.
Ma quello che ha scatenato una valanga di congetture nei media è stata la presenza all’incontro tra Shoigu e Haftar di Evgheny Prigozhin, il «cuoco di Putin», il controverso personaggio considerato l’artefice sia della «fabbrica del troll» (il centro delle operazioni di info-war russe da cui vengono diffuse le campagne di interferenza in altri paesi allo scopo di manipolare l’opinione pubblica occidentale) che dei mercenari del «gruppo Wagner», i contractors militari che Mosca ha inviato per svolgere buona parte delle missioni russe in Ucraina (a dar sostegno alle operazioni di annessione crimeana e alla campagna nel Donbass) e in Siria (a puntellare il regime senza rischiare vite di soldati regolari). Le fonti ufficiali hanno smentito la partecipazione di Prigozhin all’incontro come un segno del suo coinvolgimento militare, affermando che era lì soltanto in qualità del responsabile del catering, la sua funzione «ufficiale».
I giornali europei e americani da mesi raccolgono testimonianze indirette di un coinvolgimento sempre maggiore dei russi in Libia, dalla fornitura di missili anti-nave Kalibr e dei famosi complessi della contraerea S-300 all’invio sul terreno di agenti delle truppe speciali e dello spionaggio militare Gru, a infiltrazioni in vari gruppi e clan, fino alla stampa di moneta per il «governo» di Haftar a Tobruk. Voci che finora non hanno trovato conferme, anche perché gli aiuti militari alla Libia andrebbero contro le sanzioni dell’Onu, e a livello formale Mosca continua a riconoscere il governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj a Tripoli. Le simpatie dei russi per Haftar, ex alto ufficiale del regime di Gheddafi che ha studiato nelle accademie militari sovietiche e parla il russo, sono abbastanza evidenti: il generale si muove con disinvoltura a Mosca e usa con abilità la sua reputazione di «uomo dei russi», che lo sostengono anche attraverso l’alleanza con il leader egiziano al-Sisi.
Ma, viste da Mosca, le cose sono complicate quanto quelle sul terreno libico, spartito da una galassia di clan e gruppi. A differenza della Siria, dove il Cremlino si è schierato senza esitazione dalla parte del governo di Damasco, in Libia i russi sembrano più attenti a diversificare, e anche al-Sarraj è stato ospite frequente a Mosca. La Russia sembra scettica verso le componenti islamiste del fronte di Tripoli, preferendo – insieme a al-Sisi – il vecchio buono laicismo militare arabo, ma al-Sarraj può contare sugli appoggi di un’altra fazione importante a Mosca, quella del leader ceceno Ramzan Kadyrov. Le mosse di Haftar a Mosca infatti possono essere lette anche in chiave di lotte interne ai vari clan del Cremlino: al suo incontro con Shoigu infatti non erano presenti né diplomatici, né emissari dell’amministrazione presidenziale. È vero che il ministro della Difesa, molto vicino a Vladimir Putin, ha ormai conquistato una quota di influenza diretta sulla politica estera del Cremlino, e in alcune crisi, come quella in Ucraina, la competizione tra militari e diplomatici russi ha prodotto cambi di linea repentini quando non contraddizioni aperte. E sicuramente per buona parte dell’establishment russo, soprattutto nei servizi, l’endorsement di Kadyrov a qualcuno è già un motivo sufficiente per schierarsi dalla parte opposta.
Mosca vuole ovviamente giocare una partita in proprio in Libia, approfittando anche del vuoto creato dall’America di Donald Trump, e dagli interessi contrastanti delle varie nazioni europee. Gli obiettivi strategici di questa partita però, visto anche il disinteresse di Washington – che in Siria era protagonista e avversario della Russia –, non sono molto chiari. Il controllo della costa a Tobruk e Bengasi, a parte la teoria complottista di Putin che ricatta l’Europa con orde di migranti pronte a sbarcare, non porterebbe grandi vantaggi alla Russia, la cui marina militare non è in condizione di giocare a battaglie navali nel Mediterraneo. Il progetto di fermare gli islamisti e i Fratelli Musulmani ricreando in Medio Oriente un asse militare laico in sintonia con Mosca e Cairo ha un senso politico, ma secondo molti esperti il vero interesse russo è economico. Come dice Dmitriy Frolovsky all’agenzia Rbk, «si tratta di petrolio»: il gigante statale Rosneft ha firmato un accordo di cooperazione con i libici, e quasi tutti i giacimenti di suo interesse si trovano nella zona controllata dai fedelissimi di Haftar. Il controllo della costa consentirebbe anche di influenzare le rotte del petrolio, anche in funzione di una diminuzione delle esportazioni libiche: la Russia non è particolarmente interessata a un aumento della produzione del greggio, con conseguente abbassamento del prezzo, essendo il petrolio la principale fonte delle sue entrate.
Non è da escludere infine che varie componenti del sistema di potere russo si stiano muovendo anche in modo autonomo, creando scenari da proporre poi a Vladimir Putin. O che lo stesso Putin stia dirottando i mercenari di Wagner e gli ufficiali del Gru da Damasco a Tobruk, come aveva già fatto nel 2015 aprendo le ostilità in Siria, dove nel frattempo si sono inseriti gli Emirati, che in Libia sostengono Haftar. Senza contare che anche il generale di Tobruk sta giocando la sua partita, e la sua visita a Mosca alla vigilia della conferenza internazionale sulla Libia a Palermo poteva anche avere come scopo principale mostrare ad alleati e avversari di essere ancora l’«uomo dei russi», minacciando grazie alla presenza davanti alle telecamere di Shoigu e Prigozhin un intervento sia esplicito che «occulto» dei militari del Cremlino.