Tutto era cominciato con un «fuori programma» del G20, una coda aggiunta a quel summit di Buenos Aires. Mentre tutti gli altri leader stavano tornando a casa, le due delegazioni americana e cinese si erano riunite per una cena di lavoro. Al menu: i dazi. Dall’incontro – volutamente tenuto fuori dalla cornice multilaterale – era uscita una fumata bianca. O grigia? Donald Trump ne era uscito cantando vittoria, annunciando vistose concessioni cinesi, e di conseguenza un rinvio dei suoi superdazi, quelli che a partire dall’anno nuovo dovevano passare al 25% su 200 miliardi di importazioni made in China. Nelle stesse ore in cui avveniva il negoziato a Buenos Aires, nell’emisfero settentrionale delle Americhe accadeva un fatto grave: l’arresto in Canada di una potentissima dirigente d’azienda cinese: Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del gruppo telecom Huawei, nonché figlia del suo fondatore. Una donna che è parte del «cerchio magico» della nomenclatura vicina al presidente Xi Jinping. Accusata di essere personalmente coinvolta in una grave violazione dell’embargo sull’Iran. Quella vicenda giudiziaria ha confermato la vera dimensione dello scontro Usa-Cina.
È l’allarme americano per l’ascesa della Cina nelle tecnologie avanzate: una sfida per la supremazia mondiale che ha ricadute non solo industriali ma strategico-militari. Huawei era nel mirino già da molto. Gli americani sospettano il colosso delle telecom di essere un cavallo di Troia dello spionaggio cinese, sia industriale che militare. Mesi fa Washington cominciò ad allertare le capitali alleate, da Roma a Berlino: attenzione alle infrastrutture telefoniche made in China, vendute agli operatori telefonici occidentali, spesso pericolosamente vicine alle basi militari americane e della Nato. Con la transizione al 5G, la quinta generazione che sarà il nuovo standard della telefonìa mobile, la penetrazione di impianti cinesi nei nostri paesi rischierebbe di consegnarci a una vasta rete di spionaggio. L’Internet delle cose, come viene chiamato un futuro in cui dialogheranno fra loro tutte le macchine che usiamo grazie all’intelligenza artificiale, sarebbe ancor più vulnerabile al cyber-spionaggio cinese.
La vicenda Huawei ci proietta verso una dimensione ancora più cruciale rispetto all’annoso contenzioso commerciale con la Repubblica Popolare. Accumulare attivi nella bilancia del commercio estero è «mercantilismo all’antica», dannoso ma riparabile, tant’è che già alcuni aggiustamenti la Cina aveva cominciato a farli (aumentando i propri consumi interni e quindi le importazioni). Ben altra sfida è quella contenuta nel «piano 2025» di Xi Jinping, quello che più spaventa gli americani. Un presidente cinese che ha di fronte a sé un orizzonte di lunghissimo termine (ha cambiato la Costituzione per eliminare limiti al suo mandato) può pianificare la conquista di posizioni egemoniche nelle tecnologie strategiche. Gran parte delle classi dirigenti occidentali – che invece sono appiattite sul brevissimo periodo – non hanno visto arrivare questa nuova offensiva cinese. Troppi leader politici erano fermi alla Cina di dieci o vent’anni fa, «fabbrica del pianeta», nazione emergente. Oggi un pezzo portante della sua economia è emerso eccome, assomiglia a un Giappone con gli steroidi, a una Singapore al multiplo. Alcune élite occidentali, pur intuendo il fenomenale salto di qualità, hanno visto solo vantaggi opportunistici: l’avanzata della finanza cinese è stata assecondata, le si vende volentieri l’argenteria di famiglia, pezzi pregiati dei nostri sistemi produttivi, delle infrastrutture, delle piattaforme logistiche globali. Magari omaggiando i discorsi «globalisti» di Xi al World Economic Forum di Davos, prendendoli alla lettera come un’alternativa virtuosa al protezionismo di Trump. Senza vedere quanto il globalismo cinese sia la versione aggiornata e modernissima di una millenaria vocazione imperiale, che unita alla natura autoritaria del regime è tutt’altro che rassicurante. Osservare il pericolo Xi con lucidità non significa prendere sempre per virtuose le mosse americane. Quando un’egemonia è in declino e un’altra in ascesa, la transizione è turbolenta, conflittuale, gravida di pericoli. Atene-Sparta o la trappola del Peloponneso, secondo l’antica metafora di Tucidide.
La grande sfida che dallo squilibrio commerciale si è allargata alla competizione tecnologica, sembra vicina a una svolta a favore degli Stati Uniti. Almeno per ora. Xi infatti sta moltiplicando le concessioni all’Amministrazione Trump: annuncia che ridurrà i suoi dazi sulle auto americane, promette maggiori importazioni di prodotti made in Usa (energia, agroalimentare). Accenna perfino a voler accantonare il suo «piano 2025». È presto per dire se si tratti di una resa incondizionata, oppure di mosse tattiche per allentare la pressione dei dazi americani. Ma la flessibilità esibita dal governo cinese smentisce la maggioranza degli esperti, che anche in Occidente condannavano Trump e prevedevano conseguenze apocalittiche da un’escalation protezionista fra le due superpotenze. Oggi perfino gli osservatori più critici nei confronti del presidente americano – come il «New York Times» – ammettono ciò che avrebbe dovuto essere evidente dall’inizio: è la Cina che ha più da perdere in questo braccio di ferro poiché è la sua economia ad essere fondata sul traino delle esportazioni. Proprio i segnali di rallentamento della crescita cinese (dall’auto al settore immobiliare) starebbero confermando l’asimmetrìa: l’economia americana per ora risulta indenne dalla sfida sui dazi.
Sembra dare ragione a Trump anche la vicenda della direttrice finanziaria di Huawei, liberata su cauzione ma in residenza vigilata nell’attesa che proceda l’esame della richiesta di estradizione. Trump, ignorando l’indipendenza della magistratura, si è offerto d’intervenire sul caso. Uno strappo condannato perfino da alcuni consiglieri della Casa Bianca. Ma è uno strappo in perfetta sintonia con la logica di Xi Jinping, abituato a operare in un regime autoritario dove la magistratura obbedisce al suo governo. Trump col suo intervento irrituale, offrendosi come mediatore nella vicenda giudiziaria, conferma il sospetto cinese che tutto fa parte di un unico grande negoziato tra le due superpotenze. Colpisce il fatto che l’unica ritorsione su Huawei da parte di Pechino sia diretta contro il governo Trudeau: in Cina sono stati arrestati due cittadini canadesi tra cui un ex-diplomatico, con fantomatiche accuse di violazione della sicurezza nazionale. Ostaggi in una partita dove Xi ha preferito non attaccare direttamente gli Stati Uniti, veri mandanti dell’arresto della sua top manager.
Le concessioni ventilate da Xi per ora sono limitate. Pechino è disposta a ridurre i suoi dazi sulle auto made in Usa, dall’attuale 40% al 15%. Si tratta però di un semplice ritorno alla casella di partenza visto che il 40% era stato raggiunto come ritorsione contro i superdazi di Trump. Più sostanziali sarebbero le riduzioni di barriere all’import di energia americana e derrate agricole dal Midwest (soia, cereali). Inoltre è sparito dai documenti ufficiali cinesi il famoso «piano 2025», segno di una disponibilità a negoziare anche sul terreno delle tecnologie. Resta da vedere in che misura le promesse di Xi saranno mantenute, questione sempre cruciale soprattutto in Cina dove la mancanza di uno Stato di diritto, l’asservimento dei tribunali e della stampa al governo e al partito rendono più difficili le verifiche e più aleatorie le garanzie. Toccherà alle imprese occidentali verificare sul campo se retrocede o meno quel protezionismo occulto che Pechino pratica con spregiudicatezza anche quando si dichiara «aperta» agli investimenti stranieri. Restano inoltre inevase le richieste americane sulla protezione della proprietà intellettuale: la rincorsa cinese nelle tecnologie è stata favorita dal sistematico saccheggio di know how dalle multinazionali occidentali.
È già significativo però che Xi anziché procedere nella logica dell’escalation, rispondendo colpo su colpo, stia cambiando l’approccio. Di fatto questo significa riconoscere come legittime le rivendicazioni americane.
Il «metodo Trump» consiste anche nel mantenere aperta la possibilità di un ritorno dei superdazi: Washington li ha solo rinviati di tre mesi, per adesso. «Io sono un tipo da dazi» (I am a tariff man) ha twittato il presidente, per indicare che non si accontenterà di promesse. La guerra può ricominciare in qualsiasi momento.