Tra spinte isolazioniste e aperture al mondo

Due opposte tendenze caratterizzano la storia americana. Viaggio dalla nascita dello Stato federale a Joe Biden
/ 10.05.2021
di Alfredo Venturi

Una politica estera moderata e consapevole. Sono parole di Henry Kissinger, che illustra così il cambio di passo degli Stati uniti sulla scena internazionale dopo che a stretta maggioranza gli americani hanno affidato a Joe Biden la Casa bianca, chiudendo il controverso quadriennio di Donald Trump. L’ultranovantenne ex segretario di Stato implica ovviamente, al di là del misurato linguaggio diplomatico, che la politica estera del presidente uscente non era né moderata né consapevole. Se collochiamo questa successione e le sue conseguenze in una prospettiva storica, la vera novità di fondo appare con grande chiarezza: è il passaggio dall’isolazionismo al multilateralismo, dall’America first di Trump all’America is back di Biden. Isolazionismo e multilateralismo sono gli estremi fra i quali da sempre oscilla il pendolo che segnala le priorità del rapporto americano con il mondo.

Un paio di decenni dopo l’indipendenza il nuovo Stato federale, sorto sulle ceneri delle 13 colonie di sua maestà britannica, non volle impegnarsi al fianco della Francia rivoluzionaria stretta d’assedio dalle potenze legittimiste d’Europa. Eppure la nascita degli Stati uniti doveva molto all’appoggio francese e molti americani avrebbero voluto restituire il favore. A parte un rinchiudersi in sé stessi legato alla necessità di consolidare una potenza ancora in fasce, la linea ufficiale faceva notare che quel debito di riconoscenza non riguardava la Francia giacobina, semmai il Governo monarchico, prima vittima della rivoluzione. Il suo debito, l’America lo pagherà oltre un secolo più tardi, quando le truppe del generale John Pershing sbarcheranno nella Francia duramente impegnata durante la prima guerra mondiale. Con la formula «Eccoci, Lafayette!» quel decisivo intervento sarà dedicato al più celebre fra i volontari francesi che si batterono al fianco di George Washington.

Con la dottrina Monroe l’isolazionismo si dà una  nuova veste. In un suo celebre discorso del dicembre 1823 James Monroe, quinto presidente degli Stati uniti, fa sapere al mondo che le Americhe non sono più terre da colonizzare e che qualsiasi intervento europeo nel Continente sarà considerato una minaccia alla pace e alla sicurezza. A parte le situazioni di fatto, cioè i domini coloniali ormai cristallizzati dalla storia, l’Europa stia dunque alla larga, così come gli Stati uniti si asterranno da ogni intervento negli affari europei. Ma sarà soltanto alla fine del secolo e agli inizi del Novecento che la dottrina acquisterà il carattere di volontà egemonica degli Usa sull’intero Continente americano.

Questa egemonia continentale associata a una visione anti-colonialista non poteva che sfociare nella guerra. Sospinta dallo spirito del suo «destino manifesto» la giovane Nazione americana strapperà territori al Messico allargandosi nel Texas e nell’ovest fino al Pacifico, mentre dall’altra parte del globo arriverà a impadronirsi delle Filippine spagnole. Di questa politica assertiva, in particolare della guerra  contro la Spagna, è interprete soprattutto Theodore Roosevelt, l’uomo del big stick («se vuoi andare lontano parla pacatamente, ma porta con te un grosso bastone») che pure riceve il premio Nobel per la pace dopo avere esercitato con successo un ruolo di mediatore nel conflitto russo-giapponese. Quanto alla dottrina Monroe, nell’interpretazione del primo Roosevelt significa una sola cosa: giù le mani dal Continente americano!

A questo punto l’approccio è ben definito, sono ormai lontani i tempi in cui il dramma di una sanguinosa guerra civile costrinse l’America a concentrare lo sguardo all’interno di sé stessa, bloccando per forza di cose il pendolo sull’estremità isolazionista. Eppure già si profila una dicotomia destinata a segnare il secolo: mentre i governi di quella che ormai è divenuta una superpotenza cominciano a trovarsi impegnati sulla scena mondiale, il Paese profondo resiste, difendendo gelosamente una tranquillità domestica che le avventure oltremare rischiano di compromettere. Non a caso la partecipazione alle due guerre mondiali viene per così dire innescata da altrettante provocazioni: in realtà l’affondamento del transatlantico Lusitania nel 1917, con un migliaio di passeggeri americani a bordo, e soprattutto l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941 trascinano su lontani campi di battaglia un Paese che certamente avrebbe preferito stare a guardare.

Testimonia questo rapporto dialettico fra un’opinione pubblica tendenzialmente isolazionista e una dirigenza politica sedotta dal potenziale ruolo planetario l’amaro destino del ventottesimo presidente, il democratico Woodrow Wilson. Interprete di una grandiosa visione pacifista, è il promotore della Società delle Nazioni che lancia con l’ultimo dei suoi quattordici punti, ma nonostante le sollecitazioni presidenziali il Congresso non approva la risoluzione che impegnava gli Stati uniti a entrare nell’organizzazione ginevrina. E così proprio la grande nazione di Wilson non ne farà mai parte. Assieme alla mancanza di potere coercitivo e alla necessità del voto unanime, proprio questa assenza renderà fallimentare, dopo qualche successo iniziale, la breve vicenda della Società delle Nazioni.

È il secondo dopoguerra, inaugurato dai bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, a consacrare la vocazione mondiale degli Usa e la loro discussa funzione di gendarme internazionale, accentuandone da un lato la presenza in Asia, dall’altro il confronto attivo con l’Urss ingigantita dal contributo determinante dell’Armata rossa alla capitolazione nazista. Nonostante il disastro vietnamita, l’America continua a esercitare questa sua funzione, con un bilancio stratosferico di spese militari e una corsa agli armamenti che alla fine contribuirà al collasso sovietico. Dai democratici John Kennedy e Lyndon Johnson ai repubblicani Ronald Reagan e Bush padre e figlio, i presidenti che si avvicendano alla Casa bianca sono indotti prima dalla guerra fredda, quindi dalla sfida terroristica, a tenere alta la guardia, soprattutto in Asia e nel Medio Oriente.

Eppure nel profondo della società americana continua a pulsare il vecchio cuore isolazionista. Soprattutto nella sterminata provincia, negli Stati della Bible belt, nelle aree industriali minacciate dalla terziarizzazione, nell’America insofferente delle sofisticate idee moderniste che sono di casa in California, nel New England, a New York City. È precisamente l’America nella quale Donald Trump ha raccolto la sua straripante messe di consensi. È il Paese al quale Joe Biden ha saputo contrapporre la società metropolitana che guarda al futuro, agli alleati, alle relazioni col mondo, alla necessità di contribuire al salvataggio del pianeta ormai sull’orlo della catastrofe ambientale. E così il pendolo americano, che l’introverso elettorato di Trump aveva fatto oscillare verso l’isolazionismo, è tornato nella posizione del mondialismo multilaterale, suggerita se non imposta dalle dimensioni storiche della superpotenza.