Tra overdose di referendum e astensionismo

Una riflessione sulle caratteristiche della democrazia diretta elvetica e sulle sue debolezze
/ 16.05.2022
di Luca Beti

Ogni tre mesi arriva puntuale nella buca delle lettere: la busta con il materiale per le prossime votazioni federali. È un appuntamento fisso nelle domeniche degli svizzeri e delle svizzere (che ieri si sono espressi su cinema, trapianti e Frontex). Nel 2021 si è votato su 13 oggetti a livello federale, su 7 nel 2022 (finora), a cui se ne sono aggiunti molti altri a livello cantonale e comunale. Per qualcuno andare al voto è un dovere, per altri è un diritto della nostra democrazia. Una democrazia diretta che può essere però sfiancante. Dopo aver messo la scheda nell’urna, l’elettorato, come una sorta di Sisifo, è costretto a ritornare al punto di partenza per rifare tutto da capo: documentarsi, farsi un’opinione e poi compilare la scheda.

A chiamarci al voto sono spesso i partiti e i movimenti politici che negli ultimi anni hanno individuato nel referendum facoltativo uno strumento per mobilitare la base. Nel 2021 abbiamo votato su 7 referendum. È il numero più alto dal 1992, anno in cui il popolo ha dovuto esprimersi su 10 oggetti. Ma come mai siamo sommersi da tanti referendum? Lukas Golder, condirettore dell’istituto di ricerca Gfs.bern, indica che un motivo va ricercato nella nuova composizione del parlamento federale, composizione che ha reso il lavoro nelle commissioni più difficile. Un tempo, lontani dalla luce dei riflettori, i parlamentari e le parlamentari sapevano trovare compromessi che accontentavano un po’ tutti, mentre ora la discussione è più polarizzata. Stando al politologo, dall’autunno 2019 le camere federali stanno cercando un loro equilibrio e così il parlamento, considerato una macchina del compromesso, non funziona più come dovrebbe perché nei suoi ingranaggi si sono infilati dei granelli di sabbia.

Stando agli esperti, la contrapposizione politica e i partiti in costante campagna elettorale rischiano di mandare in tilt il sistema visto che quasi un oggetto su due viene respinto alle urne, bloccando per anni le riforme. Dall’inizio di questa legislatura la quota di successo dei referendum è del 43 per cento, quando dal 2011 al 2020 si attestava sul 26 per cento. In parte si tratta di una conseguenza della pandemia che ha politicizzato una parte dell’elettorato che solitamente non prendeva parte alle votazioni. Inoltre, a causa delle misure anti-Covid, la discussione si è spostata sempre più online, sui social media, nelle cosiddette bubble dove si è confrontati con persone con opinioni uguali, bolle che non favoriscono il pluralismo di idee. Infine per le autorità è stato più difficile influenzare il dibattito pubblico visto che non potevano incontrare la popolazione.

C’è chi parla di un’overdose di referendum, così com’era stato il caso con la legislatura precedente con le iniziative. Per questo motivo ci si può chiedere se non sia necessario aumentare il numero di firme necessarie o ridurre il tempo a disposizione per raccoglierle. Lukas Golder indica che una misura simile limiterebbe ai gruppi meno influenti e con meno mezzi le possibilità di partecipare al dibattito politico e di promuovere le loro rivendicazioni.

Oltre a un aumento dei referendum facoltativi, durante la pandemia si è registrata una maggiore partecipazione alle votazioni federali. Nel 2021 l’affluenza media è stata del 57,2 per cento, mai così alta dall’immediato Dopoguerra. Nel decennio 2011-2020 la partecipazione in Svizzera si attestava sul 46 per cento. I motivi di tale assenteismo sono molteplici. Non si tratta necessariamente di disinteresse nei confronti della politica. Stando alle ricerche svolte nel Canton Ginevra e nella città di San Gallo, dove i politologi hanno la possibilità di consultare le carte di legittimazione, l’80 per cento dell’elettorato è andato a votare almeno una volta negli ultimi cinque anni. Ciò significa che solo il 20 per cento dell’elettorato non vota mai. Si tratta quindi di una partecipazione selettiva e occasionale, quando insomma l’oggetto in votazione appassiona e attira l’attenzione della gente. I politologi spiegano così anche i picchi di affluenza alle urne su tematiche che hanno polarizzato l’opinione pubblica durante la crisi pandemica, quali la modifica della legge Covid-19 con una partecipazione record del 65,7 per cento. Sono quindi i grandi temi a «ripoliticizzare» la popolazione, in passato sono stati, ad esempio, il traffico con le trasversali ferroviarie alpine, l’ambiente con la protezione delle torbiere, la difesa con l’iniziativa per l’abolizione dell’esercito o la politica estera con lo scrutinio sullo Spazio economico europeo.

Le indagini demoscopiche hanno evidenziato un altro elemento: chi butta il materiale di voto nella carta straccia non lo fa necessariamente perché non crede nelle autorità politiche. Anzi, la scarsa partecipazione va letta come un segnale di fiducia nei confronti delle istituzioni e del sistema democratico. A preoccupare i politologi è invece il rovescio della medaglia della democrazia diretta. Una parte dell’elettorato, soprattutto i giovani, le donne e le persone con un reddito basso e poco istruite, non partecipa al dibattito pubblico perché si sente impreparato e impaurito dalla crescente complessità dei temi in votazione. Ciò potrebbe promuovere l’esclusione di una fascia di popolazione poco rappresentata anche nei consessi politici. I politologi sostengono che tale tendenza va combattuta con l’educazione civica. Se volgiamo lo sguardo sulle elezioni cantonali notiamo che la percentuale di coloro che non fanno uso del loro diritto di voto è ancora maggiore. Gli astensionisti sono stati quasi il 70 per cento nei cantoni Berna e Vaud dove si è votato nel mese di marzo. Le elezioni cantonali sono state snobbate da due elettrici ed elettori su tre. Eppure i governi e i parlamenti cantonali hanno avuto un ruolo importante durante la pandemia visto che hanno dovuto decidere su alcune misure di contenimento della diffusione del nuovo coronavirus, ad esempio sull’obbligo di portare la mascherina e sulla strategia di depistaggio nelle scuole o sullo svolgimento di eventi.

Marc Bühlmann, direttore di «Année politique suisse», non è sorpreso della scarsa affluenza alle urne poiché le elezioni cantonali sono spesso delle rielezioni dei candidati e delle candidate uscenti. Secondo il politologo, le elezioni cantonali sono spesso uno sterile rito democratico perché incapace di cambiare, in maniera decisiva, gli equilibri in Consiglio di stato o in Gran consiglio. Anche qui i motivi del crescente astensionismo nelle elezioni cantonali – fatta eccezione per i Cantoni Vallese e Ticino – sono molteplici. Gli esperti ricordano la perdita di identificazione nel proprio cantone a causa dell’elevata mobilità delle persone, soprattutto nell’Altopiano. Si parla anche di una tendenza alla «glocalizzazione», ossia ci si interessa soprattutto ai temi globali e nazionali e in parte alle questioni nel quartiere e nel comune, ma non a ciò che succede a livello cantonale. Un fenomeno favorito anche dai mass media. Le misure di risparmio e la centralizzazione li hanno obbligati a trascurare le tematiche cantonali che, di riflesso, hanno aumentato il disinteresse da parte dell’elettorato.

Per frenare l’erosione di elettrici ed elettori, Lukas Golder ha lanciato di recente l’idea di organizzare dei «Super Sunday» in cui l’elezione si terrebbe lo stesso giorno in vari cantoni di una regione, per esempio in tutta la Svizzera francese o nella Svizzera orientale, con l’obiettivo di aumentare l’attrattiva e l’interesse mediatico del voto cantonale.