Tra i russi che non vogliono più la guerra

I putiniani pragmatici ora si rendono conto di venire spinti al baratro dall’isolamento internazionale e dalle sanzioni
/ 17.10.2022
di Anna Zafesova

«Gloria all’Ucraina!». La 71enne pensionata che ha gridato il motto della resistenza di Kiev prima di gettare una bottiglia molotov in una banca di San Pietroburgo è stata subito arrestata e diventerà probabilmente la detenuta più anziana tra quelli incarcerati in Russia per atti di sabotaggio contro il regime. Gli uffici governativi vanno a fuoco o esplodono quasi quotidianamente. Il bersaglio più popolare per le molotov sono i commissariati militari, presi di mira soprattutto dopo la mobilitazione dichiarata da Vladimir Putin il 21 settembre scorso, per ridurre in cenere gli archivi dei potenziali coscritti, ma vanno a fuoco anche sedi delle amministrazioni locali e fabbriche belliche. Distrutta ogni possibilità di fare opposizione – scendere in piazza comporta l’arresto immediato e l’incriminazione per «discredito delle forze armate» – i russi contrari alla guerra hanno lanciato una sorta di resistenza semiclandestina, che si compone di atti di sabotaggio (gli incidenti ferroviari sono triplicati dall’inizio della guerra), molotov, hackeraggi per proiettare immagini che smentiscono la versione ufficiale dei fatti nelle tv, scritte sui muri, post sui social e atti di vandalismo contro i manifesti che inneggiano alla invasione dell’Ucraina. Tutti gesti che possono costare la prigione e che vengono osati da pochi coraggiosi che agiscono apparentemente a titolo personale, come la pasticciera moscovita Nastya che produce torte nei colori giallo-azzurri della bandiera ucraina, o la pensionata 60enne di San Pietroburgo, Irina Zybaneva, finita in carcere per aver lasciato sulla tomba dei genitori di Putin al cimitero Serafimovskoe il biglietto: «Portatevi dietro questo maniaco, avete cresciuto un mostro assassino».

In Russia matura lo scontento e perfino i sondaggi ufficiali hanno registrato un raddoppio della preoccupazione dei russi, dal 35 al 69% in una settimana, quella della mobilitazione. Che non è stata affatto «parziale» come aveva promesso Putin nel suo messaggio televisivo: per rastrellare i 300mila uomini richiesti per colmare la mancanza di soldati – le ultime stime parlano di 90mila militari russi uccisi, catturati o gravemente feriti in otto mesi di guerra – i commissariati militari stanno reclutando indiscriminatamente. Le convocazioni in caserma vengono distribuite negli uffici e nelle fabbriche, nei condomini porta a porta e perfino in strada, dove squadre di poliziotti e militari tendono agguati ai passeggeri in uscita dalla metropolitana e ai clienti che emergono dai supermercati. Lettere di chiamata alle armi sono arrivate perfino a disabili e a 50-60enni senza alcuna esperienza militare precedente, e in diverse grandi città gli uomini cercano di non uscire senza necessità e di non abitare all’indirizzo della residenza ufficiale.

Dopo aver sottovalutato drammaticamente l’orgoglio e il coraggio degli ucraini, il capo del Cremlino ha sopravvalutato enormemente il militarismo dei propri sudditi. Nonostante le massicce dosi di propaganda nazionalista, al momento di dover partecipare alla guerra non soltanto applaudendola come spettacolo in tv, i russi hanno votato con i piedi. Nei primi dieci giorni dall’annuncio della mobilitazione le frontiere russe sono state varcate – secondo le stime della presidenza raccolte dal giornale indipendente «Meduza» – da 700mila-un milione di cittadini. Ai valichi in Georgia si sono formate code lunghe chilometri, che richiedevano giorni di attesa, nel Kazakistan le autorità hanno mobilitato volontari per assistere centinaia di migliaia di russi bisognosi di cibo, alloggio e vestiti, mentre i biglietti aerei per le poche destinazioni accessibili dalla Russia – soprattutto Armenia, Turchia e Dubai – hanno raggiunto prezzi di migliaia di euro, prima di venire esauriti.

È un esodo gigantesco, che va ad aggiungersi a quei circa 5 milioni di russi che hanno abbandonato il loro Paese dopo il 24 febbraio. Quest’ultima ondata migratoria è però molto diversa dalle precedenti: a fuggire prima e dopo l’attacco all’Ucraina erano essenzialmente i critici del regime; i profughi scappati dalla mobilitazione sono in maggioranza dei putiniani o membri di quella maggioranza silenziosa che ringraziava il presidente russo per la stabilità politica, il relativo benessere e il senso rinato dell’orgoglio patrio raccontato dalla televisione. Un patto politico che il Cremlino ha polverizzato e i riservisti russi hanno scoperto di non fidarsi minimamente dei racconti della propaganda sulle vittorie al fronte, valutando la probabilità di venire uccisi dall’esercito ucraino talmente elevata da preferire una fuga precipitosa verso il nulla. Chi non è riuscito a scappare, sta protestando in caserma e le segnalazioni di litigi, denunce, risse e perfino evasioni con le armi dei neocoscritti si stanno moltiplicando.

Per la prima volta in vent’anni, nelle piazze sono scese le madri, che hanno protestato contro l’arruolamento soprattutto nel Caucaso, ma anche in altre Repubbliche autonome di minoranze etniche non slave della Federazione russa. L’arruolamento per una guerra che vuole imporre in Ucraina il «mondo russo» ha riacceso sentimenti nazionali e sogni secessionisti in popoli che normalmente si sentono discriminati dai russi e che finora hanno pagato il prezzo della guerra con percentuali di caduti decine di volte più elevate rispetto a Mosca o altre metropoli. Che però non vengono più risparmiate, perdendo il privilegio cui erano abituate. La guerra è entrata in tutte le case e il risultato non si fa attendere: nei sondaggi ufficiali il numero dei sostenitori della pace (a condizioni tutte da discutere) diventa uguale a quelli che vorrebbero proseguire la guerra, e nelle fasce d’età più giovani il rapporto tra falchi e colombe (e tra fan e critici di Putin) scende a uno a tre.

Non è ancora una rivolta: la tradizione dell’azione comune in Russia, a differenza dell’Ucraina, è molto scarsa, e i russi preferiscono scappare in ordine sparso invece che allearsi per ribellarsi. Non è ancora un risveglio: molti di quelli che aspettano in coda alla frontiera hanno consumato per anni la propaganda e condividono le ragioni della guerra e le ambizioni imperialiste del revanscismo putiniano. Quasi tutti i critici portatori di un discorso politico alternativo – politici, giornalisti, intellettuali, dissidenti – sono stati ridotti al silenzio o spinti all’esilio già prima dell’invasione dell’Ucraina, e l’opposizione alla guerra oggi viene rappresentata non da liberali e pacifisti, ma sostanzialmente da putiniani pragmatici, che si rendono conto di aver perso sul terreno e di venire spinti al baratro dall’isolamento internazionale e dalle sanzioni. Dopo 23 anni al potere, il leader russo ha perso l’amore del suo popolo, e il politologo Andrey Piontkovsky nota che la mobilitazione potrebbe dare una insperata legittimità e popolarità ad eventuali golpisti: «Chiunque revochi l’arruolamento coercitivo otterrebbe subito un credito di fiducia enorme». Ma intanto Putin sta mettendo il fucile in mano a uomini disperati strappati con la forza alle loro famiglie per combattere una guerra già persa con un esercito allo sbando: una situazione che nel 1917 ha fatto collassare l’impero russo.