Se togliamo l’emergenza del momento – la guerra in Ucraina e le difficoltà nel rifornimento energetico del nostro continente – la questione numero uno che accomuna da anni il dibattito politico di tutti i paesi d’Europa è senza dubbio l’immigrazione. Le opinioni pubbliche nazionali la considerano spesso un problema anziché una risorsa, una minaccia piuttosto che un sostegno. Un problema sociale e di sicurezza pubblica, prima che un fattore di crescita, capace di generare ricchezza non solo economica, ma anche culturale e umana.
L’immigrato è lo straniero, il forestiero, il corpo estraneo, ci spiegano i sociologi. Tanto più lo sono gli africani che in quantità crescente vanno popolando le nostre città (e campagne), perché già il loro aspetto esteriore li qualifica inevitabilmente come «diversi». Eppure gli africani sono, da sempre, i vicini di noi europei, separati da un mare solcato in ogni direzione da mercanti, avventurieri, predicatori, soldati. Altro che nuovi arrivati; essi sono tra noi – sono parte di noi – da millenni. Attraverso i secoli la loro presenza è stata ricorrente e spesso molto visibile: se non per numero, per importanza del ruolo nelle nostre società. Oltre che schiavi, gli africani d’Europa sono stati santi, generali, imperatori, fondatori di dinastie. È questo il tema di un libro illuminante, capace di stimolare tante riflessioni quante sono le sue pagine. Scritto da Olivette Otele, tradotto in italiano da Francesca Pe’ e pubblicato alcuni mesi fa da Einaudi. S’intitola Africani europei. Una storia mai raccontata. La sua autrice figurerebbe degnamente nell’ultimo capitolo.
Otele è nata in Camerun nel 1970 e si è formata alla Sorbona, a Parigi. Dopo il dottorato nella prestigiosa università francese, è stata chiamata a insegnare in Gran Bretagna, dove è stata la prima donna di origine africana a diventare professore ordinario di Storia. Oggi è vicepresidente della Royal Historical Society. Dal 2020 la sua cattedra all’Università di Bristol è Storia dello schiavismo, il che fa di lei una capofila riconosciuta degli slavery studies da qualche anno fiorenti nelle università del mondo anglofono.
Africani europei è un libro sorprendente, come lo è sempre uno sguardo nuovo su una realtà che crediamo di conoscere già. Avevamo un vago ricordo che l’imperatore romano Settimio Severo (146-211) fosse originario di Leptis Magna, nell’odierna Libia. Ma nessuno aveva mai messo in evidenza al lettore non specialista le sue origine puniche e berbere, pur essendo egli fin dalla nascita cittadino dell’impero a tutti gli effetti. Né la sua figura era stata giustapposta a quelle di molti altri distinti africani della Roma imperiale: militari, retori, studiosi. Così come sapevamo che Alessandro de’ Medici, capostipite della signoria fiorentina prima di venire ucciso in una congiura a 27 anni nel 1537, era detto «il Moro» a causa del colore della sua pelle. Eppure non ci eravamo mai soffermati su queste presunte ascendenze africane di una delle più grandi famiglie del Rinascimento italiano (presunte perché non tutti gli storici concordano sulle origini materne di Alessandro). Di queste e moltissime altre figure, secolo dopo secolo, pullula Africani europei: alcune molto note, altre del tutto sconosciute ai più. È un vero peccato che l’editore non abbia arricchito il volume con una iconografia che andasse ad aggiungersi allo splendido Ritratto di giovane donna di un anonimo settecentesco che illustra la copertina.
Ma il lavoro di Olivette Otele non è soltanto un’affascinante galleria di personaggi. È anche una sofisticata indagine di storia sociale e culturale, e di psicologia collettiva, su come gli africani d’Europa sono stati visti dagli altri europei, e viceversa. E su come questo sguardo sia andato cambiando nel tempo. Nell’Impero romano, ad esempio, la discriminante non era il colore della pelle ma lo status di cittadino: essere civis o non esserlo, questo era importante, il resto contava poco o nulla. Con l’avvento del cristianesimo, poi, ciò che qualificava un individuo era l’appartenenza a una religione, non a una presunta razza. Tra i santi della Chiesa cattolica ci sono tanti afro-europei, a cominciare da Agostino d’Ippona o sant’Agostino (che però il libro ignora, in favore di san Maurizio).
Il fattore che farà mutare drasticamente lo sguardo degli europei, con ignobili propaggini fino al tempo presente, sarà la tratta degli schiavi, la sopraffazione, la disumanizzazione degli africani, la loro riduzione a cosa, a bene di proprietà. Su questo punto Africani europei non consente deviazioni, distrazioni, approssimazioni. La centralità dell’abominio schiavistico, la caratterizzazione devastante che esso ha impresso ai rapporti tra europei e africani, hanno nel libro la posizione che meritano. Ben vengano gli slavery studies a restituire alla questione la piena importanza, l’insostenibile gravità che tristemente merita. In questo drastico e necessario riallineamento del punto di vista, la ricerca della professoressa Otele risente forse dell’atmosfera di «correttezza politica» che si respira diffusamente nel mondo accademico anglofono. Questa è almeno l’impressione che la lettura può lasciare in chi è estraneo sia all’ambiente sia alla professione di storico. Non c’è spazio, nelle 216 pagine del libro, per personaggi e vicende difformi da, o in apparente contraddizione con, l’assunto generale. Due esempi. Nei secoli la Chiesa di Roma non ha soltanto ignorato o addirittura benedetto la pratica dello schiavismo. Numerose bolle papali restano a prova delle ripetute e vane condanne. La tragica figura di Emanuele Ne Vunda, ambasciatore del re del Congo venuto a morire in Vaticano il giorno dell’Epifania del 1608, ne è una straordinaria testimonianza, che però nel libro non è ricordata, così come i tentativi dei papi di contrastare la tratta degli schiavi.
Secondo esempio. Africani europei dedica alcune pagine alla straordinaria figura di Joseph Boulogne, cavaliere di Saint-Georges (1739-1799). Di padre francese e madre senegalese, eccelse sia come uomo d’armi sia come musicista. Vittima di ingiuste accuse, inviso a Napoleone, morì povero e ignorato e solo molto tardivamente la sua figura e la sua opera sono state riabilitate in Francia. Viene alla mente un altro artista di sangue francese e africano, più precisamente afro-caraibico: il romanziere Alexandre Dumas (1802-1870), la cui nonna paterna era haitiana. A differenza di Joseph Boulogne, l’autore dei Tre moschettieri ebbe in vita enorme successo e godette di fama universale. Un grande afro-europeo: ma nel libro ha una sola citazione.