Tra i carri armati ammuffiti in Friuli

Il punto sul caso Ruag che ha portato alle dimissioni di Brigitte Beck, la direttrice della società elvetica di armamento
/ 21.08.2023
di Roberto Porta

Partiamo da un punto fermo, uno dei pochi in questa vicenda piuttosto contorta. Il punto fermo è un deposito, dove dal 2016 sono stazionati 96 carri armati Leopard 1 di proprietà della Ruag, la società svizzera di armamento nelle mani della Confederazione. Il deposito si trova nella città di Villesse, in provincia di Gorizia, e appartiene a Goriziane Spa, azienda attiva nel settore ingegneristico e nella manutenzione di veicoli, anche militari. La Ruag aveva acquistato dall’esercito italiano questi 96 Leopard per un prezzo complessivo di 4 milioni e mezzo di franchi, con l’obiettivo di rivenderli, interi ma anche smontati, facendo leva sul mercato internazionale dei pezzi di ricambio. In questi sette anni però niente di tutto questo è capitato, e così questi blindati si trovano ancora in Friuli, intaccati dalla ruggine e coperti da un semplice telone di plastica. L’invasione russa dell’Ucraina ha però rimescolato le carte e ridato speranze alla Ruag, più che mai convinta di riuscire a trovare degli acquirenti per questi vecchi carri, costruiti in Germania negli anni Sessanta del secolo scorso, quando l’Europa e il mondo si trovavano in piena guerra fredda.

A fiutare l’affare, viste anche le impellenti necessità dell’esercito ucraino, è stata in prima linea l’ormai ex direttrice della Ruag, Brigitte Beck, entrata in carica nel settembre del 2022, portando con sé un’ampia esperienza gestionale, ma non in ambito militare. Nei primi mesi di quest’anno l’allora numero uno di Ruag sottoscrive un contratto con la tedesca Rheinmetall AG, società attiva nel settore dell’armamento. Il contratto prevede anche l’intervento del Governo dei Paesi Bassi, pronto a finanziare l’acquisto e a inviare i carri armati in Ucraina, dopo gli imprescindibili lavori di riassetto dei veicoli, di cui si sarebbe occupata la stessa Rheinmetall di Düsseldorf. L’affare è però andato presto in fumo, dopo una presa di posizione della Seco, la Segreteria di Stato per l’economia, convinta che la neutralità elvetica non sia compatibile con una vendita di questo tipo di materiale bellico. Una decisione avvallata successivamente anche dal Consiglio federale, ma soltanto lo scorso 28 giugno e dopo aver chiesto un’ulteriore analisi giuridica anche all’Ufficio federale di giustizia.

Come documentato anche dalla RSI, nei primi sei mesi dell’anno la Ruag ha tentato più volte di convincere la Seco a cambiare idea, facendo soprattutto leva sul fatto che i Leopard 1 di sua proprietà siano ormai fuori uso, in altre parole il materiale in vendita non può più essere considerato «bellico». Dalla Seco però non è mai arrivato il tanto atteso nullaosta. Il contratto è stato pertanto annullato, una brusca frenata che solleva diversi malumori in Germania e nei Paesi Bassi, nonostante l’accordo fosse vincolato a un’approvazione politica da parte delle autorità del nostro Paese. In attesa della presa di posizione definitiva del Governo, che si è fatta attendere per diversi mesi, Brigitte Beck era nel frattempo balzata agli onori della cronaca per alcune sue dichiarazioni pubbliche decisamente poco diplomatiche e relative proprio alla riesportazione di materiale militare svizzero. Una rivendita che la Confederazione ha finora impedito a diversi Paesi europei, pronti a inviare le loro armi di origine elvetica a sostegno dell’esercito ucraino. Per Beck questi Paesi avrebbero dovuto osare di più, violare gli accordi sottoscritti con Berna e consegnare all’esercito ucraino il materiale bellico in questione. «Cosa può fare il nostro Paese per impedirlo? Niente». Questa la conclusione della top manager. Un invito esplicito a violare le norme elvetiche, in aperto contrasto con il Consiglio federale e anche con il Parlamento.

Così sono state lette quelle dichiarazioni, in particolare dal Dipartimento federale dell’economia, diretto dall’UDC Guy Parmelin, e da diversi parlamentari del nostro Paese che hanno pubblicamente criticato l’atteggiamento della numero uno di Ruag. Critiche e pressioni che hanno portato alle dimissioni di Brigitte Beck, giunte lo scorso 8 di agosto. La vicenda, il caso dei Leopard 1, non si chiude però qui. Diversi membri delle Camere federali chiedono ulteriori chiarimenti per far luce sul ruolo avuto in questo contesto dalla consigliera federale Viola Amherd. È lei la responsabile politica del nostro esercito, è stata lei a proporre l’assunzione meno di un anno fa di Beck ed è sempre lei ad avere stretti contatti con la Ruag, azienda di proprietà della Confederazione. Quanto sapeva la consigliera federale vallesana del contratto, seppur provvisorio, stipulato per vendere i carri armati stazionati in Italia? Quanto si è data da fare lei in prima persona per riuscire a piazzarli? Anche allo scopo di allentare la pressione internazionale sul nostro Paese, criticato da più parti proprio per non sostenere attivamente l’esercito ucraino. Domande a cui in Parlamento le commissioni della politica di sicurezza chiedono di avere risposte chiare e inequivocabili.

Sullo sfondo, una questione aperta fin dalle prime ore dell’invasione russa dell’Ucraina, quella della neutralità del nostro Paese. A cui, nello specifico, si aggiunge un ulteriore argomento: il ruolo e il futuro della nostra industria pubblica di armamento. A ben guardare, Beck si è mossa a difesa della Ruag e della sua possibilità di continuare a vendere le proprie armi non solo all’esercito svizzero ma anche all’estero, in particolare agli Stati democratici che ci circondano. Anche per questo motivo la consigliera federale Viola Amherd insiste nel voler collaborare con la Nato, a livello di partenariato e senza intaccare la neutralità svizzera. Proprio per permettere alla nostra difesa di estendere i suoi contatti con altri eserciti e accrescere così anche le sue competenze tecnologiche, coinvolgendo in questo ambito anche la Ruag. Una posizione che solleva anche critiche e polemiche. In conclusione, la vicenda dei vecchi Leopard 1 mette in risalto proprio questo: il confronto interno al nostro Paese tra chi difende la neutralità, nelle sue varie interpretazioni, e chi invece ritiene che questo principio possa coabitare con una limitata cooperazione militare a livello internazionale. Brigitte Beck ha di certo calcato la mano, facendosi del male da sola. Ormai inevitabili, le sue dimissioni vanno viste come una sorta di effetto collaterale delle tensioni politiche che scuotono il nostro Paese dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. E chissà se chi le succederà riuscirà a muoversi con maggiore equilibrio e anche a vendere i quasi cento blindati fermi in Italia ormai da sette anni.