Tra grandi sfide

La vittoria di Lula in Brasile ha una valenza enorme per tutta l’America Latina e non solo
/ 07.11.2022
di Angela Nocioni

In Brasile torna al Governo il riformismo progressista. Torna Luiz Inácio Lula da Silva (nella foto) e con lui la politica intesa come disponibilità all’accordo, alla mediazione, all’inclusione. Ed è importante, perché le elezioni presidenziali brasiliane fanno da faro di solito per l’intera America latina e hanno una ripercussione immediata sui Paesi vicini. Ma quello di Lula non sarà un compito facile. Il Brasile è un Paese di 214 milioni di persone, il più grande del Continente e la prima economia latinoamericana. Trentatré milioni di brasiliani vivono sotto il livello di povertà; dal primo gennaio del 2023 sarà il neopresidente ad avere il compito di toglierli dalla fame. Senza contare lo stato disperante in cui versa la foresta amazzonica e la necessità impellente di trovare un compromesso tra le pressioni dell’agrobusiness e la sopravvivenza della selva (leggi articolo a lato).

Comunque alla presidenza della Repubblica torna uno statista con un capitale politico personale consistente. Torna la negazione di quell’anti-politica che va di moda anche in America latina e che lì più che altrove ha sempre spalancato le porte del potere alla destra estrema. Torna il vecchio sindacalista che nel lontano 2009 fece sobbalzare Barack Obama in un corridoio londinese a margine di una riunione del G20. «Io adoro quest’uomo! È il politico più popolare del mondo», disse l’ex presidente Usa. Allora Lula era alla fine del suo secondo mandato (2003-2010) e si apprestava a lasciare il Governo con l’80% del consenso popolare.

Ora la situazione è ben diversa. La crisi economica morde e il Paese è sfasciato da quattro anni di non governo. Jair Bolsonaro ha infatti trasformato gli slogan anti-politici con cui vinse le elezioni del 2018 (dopo che l’arresto illegale di Lula, allora candidato favorito al primo turno, gli spianò la strada per la presidenza) in uno stile di esercizio del potere. Ha delegato tutto l’hardware del Governo ai militari piazzandoli ovunque nell’ossatura dello Stato e poi s’è messo a diffondere notizie false, per lui assai redditizie, attraverso i social network.

La sua sconfitta ha una valenza enorme per l’Argentina – sempre in bilico tra populismo peronista e rivincita ultrareazionaria – e per il Governo di sinistra cileno, fragilissimo, esposto alle richieste della sua ala radicale e alle mitragliate della destra pinochetista, sempre viva. E per tutto il Continente attraversato da ondate che di solito durano una decina d’anni e che sono sempre precedute da un cambiamento di clima politico in Brasile. Lula, al suo terzo mandato e alla sua sesta campagna elettorale dopo la prima persa 40 anni fa, si ritrova con un Brasile fascistizzato e in armi. Un altro Paese rispetto a quello del 2003. Il presidente dell’authority elettorale, odiato e insultato da Bolsonaro, il giudice Alexandre de Moraes, è andato in tv subito dopo la proclamazione del risultato a dire che tutto è andato bene, le elezioni sono state pulite, il risultato è fuori discussione e comincia la transizione. Fino al primo gennaio, giorno del passaggio della fascia verde-oro. Bolsonaro, non avuta al momento – come invece mostrava di sperare – la sponda dagli alti gradi militari per una prova di forza, fomenta l’esercito dei camionisti attivisti di estrema destra per bloccare le autostrade e sogna di poter organizzare una guerriglia alla Donald Trump. Anche lui ha tempo un paio di mesi, come quelli che hanno separato la sconfitta per mano di Biden all’assalto a Capitol Hill. Il suo forte risultato elettorale gli darebbe, volendo, la forza di poter sostenere un conveniente negoziato segreto con l’odiato avversario. Per un salvacondotto di impunità. Caduta l’immunità da presidente, Bolsonaro rischia infatti di finire sotto processo per mille capi d’accusa possibili: dai reati commessi nella pandemia negata, per l’inquinamento dell’informazione con immense bugie, per gli attacchi alle istituzioni e per numerose magagne commesse nella sua vita precedente di deputato. La stessa cosa vale per i tre suoi figli maschi, tutti in politica, tutti sospettati di arricchimento illecito e attività sospette.

Intanto l’America latina non reazionaria festeggia per ora la resurrezione di Lula sopravvissuto a sei processi penali e alla fucilazione per via giudiziaria del Partido dos trabalhadores da lui fondato nel 1980. L’ex sindacalista appena rieletto ha cominciato a tessere la trama della sua sesta campagna elettorale appena uscito di galera, (un anno e mezzo) dopo un arresto illegale avvenuto in mondovisione con gli elicotteri delle tv a volteggiare sopra la carovana di auto andata a prelevarlo a casa. Quel mandato d’arresto arrivò quasi alla fine di una vicenda giudiziaria fatta di mitragliate di accuse cominciate nel 2005, ossia nemmeno due anni dopo il debutto del suo primo Governo, quando il Brasile era osannato da «The Economist» per l’incredibile boom economico che aveva tolto milioni di persone dalla povertà. Boom dovuto all’aumento dei prezzi delle materie prime di cui il Brasile è grande esportatore e durato meno di un decennio. Ma in quel decennio il Brasile è risorto. Quegli incredibili profitti, qualcuno li ha saputi ridistribuire in politiche sociali imitate poi in molti Paesi del mondo, dall’Argentina al Sud Africa. E quel qualcuno era Lula.

Il Governo Lula dovrà ora inventarsi un modo per rendere inoffensiva la destra estrema che rappresenta la quasi metà dei votanti al ballottaggio e che è la prima forza al Congresso. E che s’è presa San Paolo, il cuore economico del Brasile. Governato spesso dalla destra, ma stavolta lì ha vinto la destra estrema. A San Paolo Bolsonaro ha visto la sua piccola rivincita perché è stato eletto governatore Tarcisio de Freitas, militare, suo ex ministro e per di più nemmeno nato a Rio de Janeiro.