La prima cosa che ti colpisce a Manaus – città nel nord ovest del Brasile – è la luce abbagliante, che diventa livida quando il fiato della foresta, l’umidità, opprime pelle e indumenti, fa sudare mentre cammini in Largo de São Sebastião. Lì il teatro Amazonas è una apparizione, un pezzo di architettura europea emigrata ai Tropici, simbolo dell’epopea del caucciù, dove una leggenda dice che abbia cantato il grande Caruso. L’autunno dell’anno scorso, insieme al fotografo Giovanni Marrozzini, sono partito da qui con un sogno: arrivare con il battello da fiume Amalassunta fino in Colombia, duemila chilometri di navigazione sul Rio Negro, due mesi in viaggio per raccontare popoli indigeni e parchi naturalistici paradisiaci, come il Jaù o l’Anavilhanas, per poi riportare la barca indietro e donarla all’Associazione Piccolo Nazareno (leggi Viaggio sul fiume mondo, Mondadori, agosto 2022).
L’istituzione missionaria opera nel quartiere più degradato di Manaus, la Colônia Antônio Aleixo, cercando di salvare i ragazzi di strada che hanno abbandonato la scuola e vendono bibite lungo le vie trafficatissime della metropoli amazzonica. Il quartiere, che si trova nella zona est, la più povera della città, dove vivono 500mila persone, è nato con la dittatura militare di Getúlio Vargas nel 1930 per ospitare un lebbrosario, poi è diventato il ghetto degradato degli ultimi. Accompagnato da Allison, l’assistente sociale, e João, lo psicologo, rivedere oggi la barca ormeggiata al porticciolo sul pezzo di fiume che bagna il quartiere è stato un vero e proprio tuffo al cuore. Sono salito a bordo, entrato nell’angusta cabina che ho condiviso per due mesi con il mio compagno di avventura, perlustrando tutta l’imbarcazione, che oggi è diventata una scuola galleggiante e una biblioteca itinerante che distribuisce libri ai ragazzi nei villaggi circostanti.
Allison e João viaggiano ogni giorno per le vie rumorose di Manaus, cercando di fare «abbordaggio», cioè parlare con i ragazzi esposti alla violenza della strada, che spesso finiscono in mano alle organizzazioni criminali, offrendo loro aiuto e cercando di parlare con i genitori. Se accettano di entrare nei progetti dell’associazione, dopo un corso preliminare, tornano nella scuola pubblica e, se sono adulti, fanno un apprendistato prima di entrare nel mondo del lavoro. «Noi siamo solo un ponte per raggiungere l’indipendenza, il resto devi farlo da solo», mi spiega João mentre viaggiamo su un’arteria stradale molto trafficata e caotica, nella calura tropicale dell’estate amazzonica. «In sei anni molti sono riusciti a trovare un lavoro, si sono iscritti all’università; altri li abbiamo persi, sono tornati a vivere in strada e nel mondo della droga». Questa è una storia di sommersi e salvati.
Auberto dopo anni di vita randagia ha ripreso a studiare e adesso lavora da quattro anni per una grande azienda, «è riuscito a costruire una casa per lui e per tutta la sua famiglia», racconta lo psicologo. Invece Bruno faceva il giocoliere ai semafori e nelle rotonde; aveva le labbra leporine e un taglio sulla bocca, non riusciva a esprimersi bene. «Ha fatto tutto il percorso», dice con orgoglio Allison. «Adesso lavora in un’impresa, è riuscito a operarsi e ha ripreso perfettamente l’uso della parola». Quelli meno fortunati sono diventati pusher del cartello Comando Vermelho, un gruppo criminale nato a Rio De Janeiro che si è diffuso in tutto il Brasile, perché Manaus è il centro di smistamento della droga che arriva dalla Colombia, dalla Bolivia e dal Venezuela e poi arriva anche nei mercati europei.
Alla scuola, che si trova in una via del quartiere a ridosso del fiume, incontro alcuni degli studenti del progetto «Gente grande». Darlison è un ragazzino dalla carnagione olivastra, capelli neri cortissimi. «Facevo il venditore d’acqua ai semafori», racconta. «Avevo 7 anni quando ho cominciato. Lavoravo insieme a mio padre». Molte ore nel traffico a convincere automobilisti sensibili a dargli qualche reais. «Poi ho incontrato Allison, mi ha convinto a tornare a scuola». William, 13 anni, mi confessa che nel quartiere ci sono molti suoi amici che fanno uso di droga, «cominciano a 10 oppure 11 anni, tirano cocaina e crack». Ci sono bambine che si prostituiscono con uomini anziani per 5 reais, l’equivalente di un franco o quasi, e per tenersi sveglie in strada sniffano cocaina. Alcune di loro sono morte di overdose. In questi contesti degradati è molto diffusa la violenza sessuale, anche in ambito famigliare. I ragazzini girano armati di piccoli fucili a canne mozze. Ogni strada ha un punto di spaccio. Anche Darlison si drogava mentre lavorava ai semafori: «Ti senti meglio, serve a non pensare». È come vivere in un’altra dimensione.
In auto torniamo verso il centro della città. Prima raggiungiamo la zona dove di solito si esibisce un giocoliere, con il quale l’Associazione Piccolo Nazareno ha già preso contatto, ma non è ancora arrivato, allora ci fermiamo a ridosso di una rotonda con un grande albero al centro. Su un lato c’è un ragazzo che tiene in braccio una bambina. Vende acqua offrendola agli automobilisti. Indossa una camicia celeste, sudata e logora, mostra un cartello dove è scritto «aiutatemi a comprare i pannolini e il cibo per mia figlia». João si avvicina per parlarci. Ha ventidue anni e dice confuso «non conosco l’età di mia figlia, ma potete fare l’esame del Dna, è mia figlia, si chiama Ester». La sua compagna ha partorito la prima volta a 11 anni. «Prima lavoravo in un altro posto, potevo guadagnare anche 400 reais al giorno, ma c’era molta competizione tra noi, molta violenza», sostiene. Qui guadagna di meno ma è più tranquillo.
Quando lo salutiamo il sole sta tramontando. Ci assale la stanchezza. È in quel momento che mi torna in mente il racconto di Marciele, una ragazza di 19 anni che ho incontrato nel pomeriggio. Indossava dei jeans e una maglietta nera, aveva i capelli lisci castani e un sorriso timido che si accendeva, spegnendosi subito dopo, quando ridiventava seria e la voce cambiava tonalità. C’era stato un momento nella sua vita, prima di conoscere Allison e João, che sua madre era depressa: se ne stava tutto il giorno a letto a piangere. Suo padre aveva perso il lavoro e la sorella aveva partorito un figlio con un uomo più anziano e poi era fuggita di casa. «Avevo 11 anni e per aiutare la famiglia vendevo bevande e popcorn durante le partite di calcio», mi ha detto. «Ma una notte tre uomini mi hanno sequestrata e stuprata nella foresta». Marciele è tornata a casa tutta insanguinata ma non ha detto niente a sua madre, voleva proteggerla. Dopo era tornata in strada a vendere latte condensato e banane.
Solo anni dopo, all’età di 15, aveva incontrato i ragazzi del Piccolo Nazareno. «Il progetto mi ha salvato la vita», afferma. «Studiavo di notte e lavoravo di giorno». E adesso riesce a pensare al futuro. Tutto è cambiato, certo, ma certe volte il terrore e i pensieri di quel giorno ritornano: «Fate tutto quello che volete, ho detto a quegli uomini. Ma non ammazzatemi». Poi su di lei è sceso il buio.