«Durante gli incontri possono emergere tematiche impegnative», osserva Beatrice Lafranchi, responsabile della sede di Locarno de Il Tragitto. «Matrimoni forzati, abusi di diverso tipo, terribili traversate del Mediterraneo in barcone…». «Non andiamo a cercare di proposito il vissuto di dolore», sottolineano le direttrici dell’associazione Cecilia Testa e Fabia Manni-Moresi. «Le confidenze arrivano spontaneamente. Noi le accogliamo. In un secondo momento, se necessario, indirizziamo la persona che esprime un disagio verso il servizio specializzato: Servizi sociali e psico-sociali, Consultori di salute sessuale dell’Eoc, Servizio per l’aiuto alle vittime di reati eccetera. Siamo insomma un ponte tra le utenti e il mondo esterno».

Sempre più frequentemente nelle sedi de Il Tragitto si parla anche di violenza domestica, affermano le nostre interlocutrici. «Abbiamo notato un crescendo delle segnalazioni negli ultimi anni. Come mai? Da un lato le limitazioni dovute alla pandemia possono avere esasperato gli animi, peggiorando situazioni già problematiche. Dall’altro Il Tragitto ha creato più momenti di incontro individuali dove queste esperienze di sofferenza possono venire alla luce. Negli spazi che abbiamo a disposizione si respira aria di fiducia, rispetto e reciprocità. È più facile vuotare il sacco qui che di fronte a funzionari di un ufficio che non si conosce». Sono in molte a chiedere ad esempio quali sono in Svizzera i diritti delle donne, delle donne separate, quelli del fanciullo ecc. «Qui si rendono conto di avere dei diritti! E desiderano ardentemente imparare. Dalle loro richieste si crea il programma de Il Tragitto, così si impostano le giornate che possono essere arricchite dal contributo di esperti. Le donne che incontriamo diventano quindi partecipanti e non utenti, hanno la possibilità di sentirsi accolte e coinvolte».

Il Tragitto – nato nel 2010 come iniziativa di socializzazione e diventato associazione nel 2017 – promuove diversi progetti. Tra questi ricordiamo Incontriamoci e Ritroviamoci, momenti di incontro e scambio che, indirettamente, accompagnano le partecipanti/i partecipanti alla scoperta degli spazi pubblici e dei servizi presenti sul territorio; corsi di italiano finalizzati all’integrazione; attività diverse gestite dai volontari (corsi di cucina, cucito e altre attività manuali). Nelle sale de Il Tragitto esiste anche uno sportello che offre aiuto nel disbrigo di pratiche amministrative (rinnovo del permesso di soggiorno, formulario di cassa malati ecc.) e – dal 2018 – la possibilità di un accompagnamento individuale finalizzato all’inserimento socio-professionale. Quest’ultimo è pensato per giovani donne in situazioni di vulnerabilità: dopo aver stilato un bilancio della situazione personale, si cercano di attivare soluzioni a corto o lungo termine in collaborazione con i servizi specializzati presenti sul territorio.

Nel 2020 la sede luganese de Il Tragitto ha accolto quasi 140 adulti e un centinaio di bambini e bambine mentre il presidio locarnese – che era una novità – circa 30 donne e 20 minori. Un grande risultato, sottolineano Testa e Manni-Moresi, calcolando che tra marzo e agosto i centri hanno dovuto chiudere i battenti a causa del Coronavirus. «Abbiamo però mantenuto le consulenze telefoniche e implementato le attività del gruppo Whatsapp che raggruppava oltre 90 famiglie, un canale utilissimo per la diffusione delle informazioni legate alla pandemia. Informazioni che abbiamo cercato di rendere più comprensibili a tutte».

Sempre nel 2020 le famiglie de Il Tragitto appartenevano a una trentina di nazionalità, tra cui Eritrea, Somalia, Senegal, Sudan, Medio Oriente, Sud America. Le nazionalità dei e delle partecipanti cambiano a seconda dell’andamento delle crisi internazionali e dei flussi migratori verso il nostro Paese, sottolineano le intervistate. «C’è chi viene sempre e chi una volta al mese. La nostra idea è accogliere le famiglie, con o senza bambini e bambine, e permettere loro di incontrarsi e stare insieme. Alcune utenti arrivano e non conoscono una parola di italiano. Si nascondono dietro un muro di timidezza ma poi piano piano prendono confidenza, stringono delle amicizie e spiccano il volo».


Tra chi è scappato da guerre e miseria

Migrazione, a Lugano incontriamo Amy, con un passato di dolore in Senegal, e Mahjan che piange per la furia dei talebani
/ 31.01.2022
di Romina Borla

Mentre nel Mediterraneo si continua a morire – annegati o assiderati – nel tentativo di raggiungere l’Europa, simbolo di una vita migliore o semplicemente di vita, in Bielorussia, nonostante il gelo, ci sono ancora gruppi di migranti accampati alla bell’e meglio in attesa di poter varcare il confine polacco (un paio di mesi fa erano migliaia). Donne, uomini e bambini in fuga dai conflitti e dalla miseria con una borsa di plastica in mano e tanta paura. Dal canto suo Varsavia, la settimana scorsa, ha avviato la costruzione del muro per fermarli. Una barriera alta oltre 5 metri e lunga 187 km, con torri di guardia e sensori di movimento. Una struttura costosa: circa 362 milioni di franchi, quasi interamente coperti dallo Stato polacco. Sono immagini che sembrano giungere da troppo lontano e non riguardarci ma noi siamo parte di quell’Europa che in tanti sognano, talvolta parte di quell’Europa che invece di respingere accoglie. Per rendersene conto basta uscire di casa e incontrare chi ha vissuto esperienze che possiamo solo tentare di immaginare. Come ha fatto di recente «Azione» .

«Noi stranieri non siamo come certi politici raccontano», esordisce Mhret, 30 anni e quattro figli, un sorriso aperto su un mondo che non sempre le è stato amico. «Qui succedono cose belle. Ci si incontra e si impara dall’esempio delle altre. Qui si parla anche dei nostri diritti, dei diritti delle donne». «Qui» sono gli spazi de Il Tragitto, un’associazione «che promuove la socializzazione, la formazione e il sostegno alle famiglie», dove si incontrano donne di nazionalità diverse con i loro bambini, i loro sogni e tanti fantasmi. Oltre alle animatrici e ad alcune volontarie. Nella sede Luganese de Il Tragitto, in via G. Stabile 12, c’è un bel movimento già di primo mattino (dal 2020 esiste un presidio anche a Locarno). «Per molte donne questa è una seconda casa», afferma Cecilia Testa, co-direttrice dell’associazione insieme a Fabia Manni-Moresi. «Oggi sono arrivate per partecipare al progetto Incontriamoci insieme ai loro figli, i quali giocano in spazi diversi accuditi da operatrici della prima infanzia. Intanto loro, le mamme, hanno la possibilità di parlare, condividere conoscenze ed esperienze, praticare l’italiano». Si discute insomma, ma non solo: si cucina, si cuce, si sperimentano soluzioni di estetica fai da te ecc. Creando – e questo è forse l’aspetto più importante – legami, contrastando così tristezza e isolamento.

Le mascherine non celano gli occhi, per fortuna, e quelli delle donne che incontriamo raccontano, arrivano dove le parole non riescono a spingersi (c’è anche chi non padroneggia la lingua italiana). Alcune di loro portano il velo. Tutte sono curiose di capire chi siamo. Ci avviciniamo ad Amy, un concentrato di forza e malinconia. È la sportiva del gruppo: cintura nera di Karate, in Senegal faceva parte della nazionale di arti marziali. Nonostante il dolore, ci accompagna alla scoperta della sua realtà. A Dakar ha sposato, giovanissima, un uomo impostole dalla famiglia insieme al quale ha poi concepito un figlio. «Nel mio Paese quando partorisci non ti considerano più», spiega. «Ma io ero brava e ho avuto fortuna, così nel 2012 ho partecipato ai mondiali di Karate in Serbia». È partita da sola, affidando il suo piccolo alle cure della nonna. «Non stavo bene, avevo paura di tornare a casa, c’erano troppi problemi. Così sono scappata». Sempre sola, attraverso Bosnia-Erzegovina, Croazia e Slovenia, è giunta in Italia. Senza documenti è stata dura. Per fortuna, a Milano, ha incontrato persone che le hanno teso una mano, ospitandola e offrendole pasti caldi. Con lo scopo di guadagnare qualche soldo da spedire in Senegal, per il suo bimbo, vendeva libri per le strade, intanto seguiva i corsi di italiano dell’associazione Arcobaleno (www.associazione-arcobaleno.org). Nel 2016 ha conosciuto quello che sarebbe diventato il suo secondo marito; abitava in Svizzera. Amy è rimasta incinta e – attraverso il ricongiungimento famigliare – è arrivata in Ticino. Purtroppo il sogno si è trasformato in un incubo. Ma la giovane è riuscita a reagire e a ricostruirsi una vita. Adesso ha un posto sicuro dove stare insieme ai suoi figli e sogna di trovare un lavoro come collaboratrice domestica, cassiera o barista. Ora può immaginare un futuro più sereno.

Negli spazi dell’associazione incontriamo anche Winta, Brkti, Freweyni e Hosana che provengono dall’Eritrea, come Mhret. Sudi invece dalla Somalia, Zozan dalla Turchia, Mariama dalla Guinea, Zeinab dal Libano, Amona dal Sudan. Poi c’è Doris, una nonna del Luganese che porta volentieri al centro sua nipote; Marie-Paule, un’insegnante di italiano del Canton Vaud che ha deciso di fare 6 mesi di volontariato a Lugano. Volontaria anche Antonia, un’insegnante di Massagno in pensione piena di voglia di dare e ricevere. «Stare qui – dice – restituisce un senso di relazione». Presente anche Liana, arrivata in Ticino nel 2019 dalla Russia, dopo il matrimonio con uno svizzero.

Mentre Mahjan è nata in Afghanistan, dove faceva l’estetista a domicilio. È giunta in Ticino una decina di anni fa, ci racconta avvolta nel giallo vivo del suo hijab, per scappare dalla violenza. «Herat era una città bellissima», ricorda. «Ma viverci era diventato impossibile. E continuo a piangere per il mio Paese nelle mani dei talebani». La nostra interlocutrice si è sposata a 15 anni e ha partorito 8 figli, 6 maschi e 2 femmine. Suo marito, di 12 anni più vecchio, era inviso ai fondamentalisti ed è stato incarcerato prima di riuscire a scappare – insieme a Mahjan e ad alcuni figli – percorrendo la tristemente nota rotta balcanica: Iran, Turchia, Grecia e poi su su fino ad arrivare in Svizzera. Con lo sguardo e i gesti delle mani tenta di farci capire quanto è stato doloroso. Ma il tempo sbiadisce anche i ricordi più terribili e lei – in Ticino – è riuscita a ritrovare il sorriso insieme ai suoi figli: due vivono nella Svizzera tedesca e hanno potuto studiare. Sono loro il suo vero riscatto.

Ad un tratto si apre la porta ed entra una signora accompagnata da Beatrice Lafranchi, responsabile della sede di Locarno de Il Tragitto. Viene dallo Sri Lanka, parla solo tamil. Si guarda intorno, mani attorcigliate, saluta con un timido cenno del capo. A breve arriverà un’interprete, ma adesso è tempo di preparare tè, caffè e mousse di cachi. Un po’ di dolcezza aiuta a migliorare l’umore. È da un po’ che Alem vuole dirci qualcosa. Fa qualche passo nella nostra direzione. Di origini eritree, vive nel nostro cantone da 9 anni. Ci parla della difficoltà di riuscire a trovare uno sbocco professionale: «Non abbiamo un diploma, nessuna esperienza e – con dei figli piccoli a cui badare – il tempo è poco. Tutte noi abbiamo voglia di fare, però ci mancano le possibilità». Poi mi chiede se conosco qualcuno che potrebbe aiutarla a trovare un lavoro. Un mestiere qualunque, per potersi inserire davvero nella società e guadagnare qualcosa per la famiglia e per inventarsi un futuro.