Tolleranza zero verso i talebani

Afghanistan – La nuova ondata di attentati è stata letta come una reazione alle pressioni Usa esercitate sul Pakistan e alla nuova strategia americana sulla regione. Strategia che mira a coinvolgere nella questione afghana anche l’India
/ 12.02.2018
di Francesca Marino

Quattro attacchi terroristici in dodici giorni, che hanno messo a ferro e fuoco l’Afghanistan e lasciato sul terreno un centinaio di morti e centinaia di feriti in prevalenza civili. Il bilancio degli ultimi quindici giorni a Kabul e dintorni è pesante, più pesante di quanto non si aspettassero tutti dopo l’annuncio di Capodanno di Donald Trump, che con un tweet prima e poi con un documento ufficiale sospendeva ogni tipo di aiuto militare al Pakistan accusando allo stesso tempo Islamabad di proteggere quegli stessi terroristi che si era impegnata a combattere. Nel corso degli anni è diventato un copione già scritto: ogni volta che gli Stati Uniti mettono il Pakistan alle strette, aumentano gli attacchi di militanti vari. Ai danni dei soldati della coalizione prima, ai danni dei militari afghani e, soprattutto, di civili negli ultimi tempi.

La risposta di Washington però, questa volta, è stata un pochino diversa. Mentre Trump finiva il suo discorso sullo Stato dell’Unione, difatti, la Casa Bianca emanava un documento che serviva a chiarire in qualche modo le linee-guida della strategia di Trump sulla regione. Strategia enunciata in seguito in dettaglio, durante una conferenza stampa a Kabul, dal Sottosegretario di Stato John Sullivan. Sullivan ha dichiarato infatti: «Il presidente Trump chiarisce una volta per tutte che i nostri alleati non possono essere amici dell’America continuando a sostenere o a giustificare il terrore... la strategia per l’Asia del Sud del presidente Trump, basata sugli obiettivi, assicura ai comandanti tutta l’autorità e le risorse necessarie per negare ai terroristi rifugi sicuri sia in Afghanistan che in Pakistan». In pillole: da oggi in poi le truppe americane sono autorizzate a compiere azioni militari contro jihadi vari ovunque essi si trovino, in Afghanistan oppure in Pakistan. Fine della ricerca di una soluzione politica, quindi, e dei colloqui con i talebani, almeno a breve termine. E tolleranza zero verso gli abituali doppi e tripli giochi di Islamabad. 

Tutto questo succede mentre gli Stati Uniti hanno messo a punto una nuova Strategia di difesa nazionale (della quale Lucio Caracciolo riferisce a pagina 17) il cui principale obiettivo sarà la competizione fra grandi potenze e meno il terrorismo.  

D’altra parte, l’ondata di attacchi è stata letta in tutto il subcontinente allo stesso modo: una reazione alle pressioni esercitate sul Pakistan e alla nuova strategia americana sulla regione, strategia che mira a coinvolgere nella questione afghana anche l’India. Secondo l’ex-ambasciatore pakistano a Washington, Hussein Haqqani, l’attacco all’Hotel Intercontinental presentava «molte similitudini con l’attacco di Mumbai del 2008 e della Army Public School di Peshawar del 2014» riconducibili alla Lashkar-i-Toiba: gruppo finanziato e addestrato dai servizi segreti pakistani.

La Lashkar-i-Toiba veniva nominata anche dopo l’attacco all’Accademia militare di Kabul, questa volta dall’attaché culturale afghano a Washington, Majeed Qarar, che twittava testualmente: «Le lenti a infrarossi trovate ai talebani che hanno assalito la base ANA erano di tipo militare (non in vendita al pubblico) acquistate dall’esercito pakistano da una compagnia britannica e forniti alla Lashkar-i-Toiba in Kashmir e ai Talebani in Afghanistan. Lashkar-i-Toiba è un’organizzazione terroristica internazionale». Ai tweet seguiva, come sembra ormai consuetudine ai livelli alti della politica, l’azione. Una delegazione del governo di Kabul si recava difatti a Islamabad, per presentare a esponenti dell’intelligence e dell’esercito una lista di nomi di terroristi coinvolti. Terroristi che, secondo quanto dichiarato dopo essere stati catturati, sarebbero stati addestrati dalla Lashkar-i-Toiba e dall’Isi a Chaman, in Balochistan.

Non solo: secondo il ministro degli Esteri afghano Wais Ahmad Barmak, i talebani stessi, nel rivendicare gli attacchi, hanno sostenuto di aver obbedito a ordini arrivati dal Pakistan. Kabul ha dichiarato inoltre di avere le prove di quanto afferma, e di essere pronta a presentarle al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite se il Pakistan rifiuta di collaborare. Islamabad, come al solito, ha cercato di giocare al buon vecchio gioco delle tre carte: protestando a gran voce la propria innocenza ma inviando a Kabul una delegazione ufficiale, negando però che la delegazione fosse stata inviata per discutere questa situazione specifica.

Mentre a Kabul si discuteva, i talebani compivano un altro attentato in Pakistan, mirato, secondo gli analisti, a confermare la narrativa di Islamabad: il Pakistan è vittima come e più di altri del terrorismo e non ha alcun controllo su jihadi e affini. Affermazione smentita però clamorosamente da un avvenimento in qualche modo accidentale: una folla di pashtun che protesta da giorni contro il governo di Islamabad, ha dato fuoco a un ufficio dei talebani nei pressi di Peshawar. Un ufficio dei «buoni» talebani amorosamente cullati dai servizi segreti. E la Lashkar-i-Toiba, imbaldanzita dall’impunità di fatto che gode nel Paese, ha pubblicato una mappa delle azioni terroristiche compiute in India nell’ultimo anno.

A questo punto, Washington sembra intenzionata a fare sul serio, e in Parlamento (Camera e Senato) è stata presentata una proposta che metta fine anche ai finanziamenti e agli aiuti di tipo non-militare erogati dagli Stati Uniti al Pakistan. Secondo la proposta, i soldi destinati a Islamabad che «fornisce aiuti militari e di intelligence» ai terroristi, dovrebbero essere ricollocati per costruire strade e ponti negli Stati Uniti.

Una misura del genere sarebbe disastrosa per Islamabad, che dipende in larga parte dagli aiuti americani e del Fondo Monetario Internazionale. Ma forse non basterebbe nemmeno, da sola, a risolvere l’ormai complicatissima situazione afghana. Anni e anni di miopia politica ed errori strategici hanno creato un intrico di nodi ormai difficilissimi da sciogliere: il governo, l’ennesimo eletto con «democratiche» elezioni in qualche modo pilotate dall’Occidente, è in fase di stallo perché il presidente Ghani e il suo premier Abdullah si detestano. I talebani controllano di fatto quasi il settanta per cento del Paese e sono divisi in gruppetti e fazioni alquanto litigiose.

Non solo: negli ultimi due anni è comparso anche lo Stato Islamico, sotto sigle locali, che però combattono, secondo gli analisti, non agli ordini del califfato ma dei servizi segreti pakistani che trovano utile servirsi di un altro strumento da adoperare in diversi modi: ai danni del governo, per sventolare alle truppe della coalizione lo spauracchio IS, per tenere a bada i talebani recalcitranti a eseguire gli ordini. Il traffico di droga, la criminalità spicciola e la corruzione fioriscono creando a loro volta altri legami tra jihadi e criminalità ordinaria: forse molti lo hanno dimenticato, ma Osama bin Laden ha cominciato a finanziare le sue attività in grande facendo traffico di droga e di armi in compagnia del Don mafioso Dawood Ibrahim. A sua volta protetto, tanto per cambiare, dall’Isi pakistana.

Il fatto è che il Pakistan, e questo gli Stati Uniti hanno rifiutato e ancora rifiutano di capirlo, ha interessi strategici che divergono completamente da quelli americani: la convergenza è stata solo momentanea, e limitata ai tempi dell’invasione russa dell’Afghanistan. Per Islamabad, è importante mantenere il controllo su Kabul: in nome della famosa profondità strategica, che è tra gli obiettivi dichiarati sia dell’Isi che della Lashkar-i-Toiba, e per evitare di ritrovarsi l’India su un secondo confine. L’Afghanistan può venire adoperato, e lo è stato, come luogo di transazione per infiltrare jihadi in India ma, soprattutto, non deve, come è successo negli ultimi anni, accogliere al suo interno investimenti e infrastrutture indiani: l’economia, come ben sa Islamabad, conquistata ormai dai cinesi, influenza la politica quanto e più delle armi.