Ben poche persone al mondo saprebbero localizzare sulla carta l’abitato di Mahbere Dego. È una povera contrada del Tigray, arida e montuosa regione all’estremo nord dell’Etiopia. Ma nelle prime settimane di quest’anno il suo nome ha preso a circolare furiosamente sui social media, accompagnato a dei brevi filmati che sembravano attestare un massacro di civili compiuto da uomini in uniforme. Vi si vedevano i soldati trascinare i loro prigionieri inermi verso il bordo di una scarpata e lì abbatterli a colpi d’arma da fuoco. La Bbc ha analizzato quegli spezzoni di immagini, ne ha decrittato il confuso vocio, gli ordini secchi gridati in amarico, ne ha confrontato il paesaggio con quello archiviato dai satelliti, ha ingrandito i dettagli delle divise militari ed è giunta alla conclusione che sì, le immagini sono autentiche e un orrendo crimine di guerra è stato compiuto a Mahbere Dego ai primi di gennaio.
Nel novembre 2020 il Tigray era stato teatro di un feroce conflitto tra l’esercito etiopico e il locale gruppo dirigente, che aveva rotto tutti i rapporti col Governo federale dando luogo a quella che aveva tutte le apparenze di una secessione. Poco tempo dopo il premier Abiy Ahmed aveva annunciato davanti al Parlamento di Addis Abeba la fine vittoriosa delle ostilità, commettendo però tre errori. In primo luogo era stato troppo frettoloso. Il Tigray rimane chiuso al resto del mondo, un’implicita ammissione che la situazione non si è affatto normalizzata. Le formazioni armate locali hanno ripiegato sulle montagne, molti leader regionali sono sfuggiti alla cattura, promettendo guerriglia. A decine di migliaia gli abitanti restano attendati nei campi profughi oltre confine, in territorio sudanese.
Il secondo errore di Abiy Ahmed è stato quello di elogiare pubblicamente le forze armate federali, dichiarando che si erano comportate con piena professionalità e che la popolazione civile era stata risparmiata. Salvo poi, incalzato dalle evidenze raccolte dai media e dai Governi internazionali, promettere un’inchiesta sui possibili crimini ed abusi compiuti dai suoi soldati. Amaro voltafaccia per un leader che appena l’anno prima, nel 2019, era stato insignito del Premio Nobel per la pace.
Quel premio Abiy Ahmed se l’era meritato per aver posto fine al conflitto con la vicina Eritrea, che i suoi predecessori avevano lasciato trascinarsi irrisolto per un buon ventennio. Ma proprio all’Eritrea è legato il terzo errore del quarantacinquenne premier etiopico. Costretto anche in questo caso dalle denunce internazionali a tardive ammissioni, egli ha dovuto riconoscere che le forze armate eritree sono intervenute in Tigray accanto a quelle etiopiche, rendendosi con ogni probabilità anch’esse responsabili di crimini di guerra. Ha subito aggiunto che gli eritrei si sono adesso ritirati, ma le sue parole hanno fatto immediatamente cambiare natura al conflitto tigrino: da operazione di polizia interna a questione regionale, con il coinvolgimento di un altro Stato.
Nelle ultime settimane la questione del Tigray sembra non attirare più tanto l’attenzione dei media, interessati piuttosto all’evolversi della pandemia attraverso l’Africa. Ma questo silenzio non deve trarre in inganno. La crisi non è affatto risolta e se non verrà ricomposta potrebbe mettere a repentaglio la stabilità dell’Etiopia e con essa dell’intero Corno d’Africa. Parliamo di uno dei maggiori Paesi del Continente, con oltre 110 milioni di abitanti stimati, con un prestigio che gli viene dalla sua storia e un’economia in forte crescita. Indiscussa potenza regionale e dunque decisivo fattore di equilibrio o, per converso, di potenziale disgregazione.
Il problema dell’Etiopia, quantomeno da 70 anni a questa parte, è la sua irrisolta questione nazionale. Malgrado il rafforzarsi del potere imperiale prima, e il successivo avvento dello statalismo militar-comunista, essa resta una somma di diverse nazionalità piuttosto che un’unica grande Nazione. I regimi che si sono susseguiti al potere hanno cercato di affrontare il problema negandolo, cioè rafforzando al massimo la centralizzazione, oppure riconoscendolo, ristrutturando di conseguenza lo Stato in senso federale.
Entrambi gli orientamenti hanno dato risultati insoddisfacenti. Ad Abiy Ahmed si attribuisce l’intenzione di introdurre riforme in senso nuovamente unitario. Ma la sua ascesa al potere ha coinciso con il riaccendersi delle spinte centrifughe, in particolare quella degli Oromo, la nazionalità più numerosa del Paese – un terzo dei cittadini etiopici appartiene a questa etnia – e storicamente quella più oppressa e marginalizzata (ulteriore paradosso è che lo stesso Abiy Ahmed sia un oromo, il primo ad occupare una posizione di potere così elevata, anche se esponente di un partito vicino al Governo centrale).
Per tutto il 2020, e ancora nei primi mesi del nuovo anno, le tensioni con la vasta comunità oromo hanno continuato a riaccendersi, talora con scontri di piazza, violenze e numerose vittime. Per questo molti osservatori temono che, se lasciato incancrenirsi, il conflitto in Tigray – geograficamente agli antipodi del territorio oromo – possa finire per fare divampare altri focolai. Un altro fattore infine, potenzialmente il più inquietante di tutti, minaccia il futuro dell’Etiopia. È la grande diga sul Nilo azzurro, la Grand ethiopian renaissance Dam o Gerd, la cui costruzione è ormai ultimata e il cui enorme invaso si sta lentamente riempiendo.
I Paesi che si trovano a valle lungo il corso del fiume, Sudan ed Egitto, mal tollerano la presenza della diga, che considerano una minaccia alla propria sopravvivenza. I negoziati multilaterali, in corso da anni, sono fin qui falliti. Il tentativo di mediazione dell’Unione africana è anch’esso fallito. Ora il dossier è sul tavolo dell’Onu. Un ulteriore fallimento finirebbe per lasciare la parola soltanto alle armi, dando luogo a una deflagrazione dalle conseguenze incalcolabili.
Tigray, le atrocità non sono finite
La crisi in atto nella regione all’estremo nord dell’Etiopia potrebbe mettere a repentaglio la stabilità dell’intero Corno d’Africa. Gli errori del primo ministro Abiy Ahmed e il ruolo della grande diga sul Nilo azzurro
/ 03.05.2021
di Pietro Veronese
di Pietro Veronese