Theresa May vacilla ma non si spezza

Brexit - La premier britannica posticipa il voto in parlamento sull’accordo per la fuoriuscita dall’Unione europea e sopravvive ad un voto di sfiducia del proprio partito, lasciando ingarbugliata la matassa
/ 17.12.2018
di Cristina Marconi

Innumerevoli volte si è scritto che Theresa May era all’ultima spiaggia. La premier britannica ha sempre smentito le previsioni ed è andata avanti, inossidabile, con un’energia da lasciare a bocca aperta. E anche mercoledì 12 dicembre, quando la frangia euroscettica del suo partito ha organizzato un voto di sfiducia, è riuscita a sopravvivere con duecento voti contro 117. Un risultato positivo se confrontato con i 199 voti che prese ai tempi in cui fu nominata leader del partito all’indomani del referendum del 2016, ma deludente se si pensa a quanto sia irto di pericoli il percorso parlamentare della Brexit, senza maggioranza e con imboscate annunciate da ogni parte. Alla luce di questo, anche il principale vantaggio dell’aver ottenuto la fiducia impallidisce: è vero, la sua posizione a Downing Street è blindata per un anno, ma l’opposizione sa che ci sono 117 Tories che non le solo leali e che potrebbero votare una mozione di sfiducia nei confronti del governo. Portando a elezioni, con un nuovo leader conservatore. L’unico problema di cui solo alcuni sono consapevoli è che sarebbe solo un finto voltare pagina, visto che il nodo più difficile e irrisolto, ossia quello della Brexit, resterebbe intatto.

Qualcuno suggerisce che la May abbia attivamente cercato il voto di sfiducia annunciando a sorpresa la decisione di rimandare il «voto significativo» sull’accordo raggiunto con Bruxelles sulla Brexit: sebbene l’esito sia tutt’altro che rassicurante, le permette di guadagnare tempo e procedere con quella politica dei piccoli passi che fino ad ora le è servita. I commentatori amano sottolinearne lo stoicismo davanti alla sfortuna, ma all’indomani del voto di sfiducia il «Financial Times» ha finalmente reso onore ai suoi «trucchi da Houdini» senza i quali non sarebbe mai sopravvissuta in un mare così agitato. C’è della bravura, e soprattutto c’è dell’onestà in una premier che per aver voluto interpretare alla lettera la volontà popolare espressa nel 2016 si ritrova ad avere contro gli euroscettici velleitari, quelli che senza una proposta fattibile continuano a parlare di non meglio precisati strumenti tecnologici per risolvere il nodo irlandese e flirtano con l’idea di un mancato accordo con la Ue per recidere i legami in modo netto, senza badare alle catastrofiche conseguenze economiche.

Se c’è una conclusione che si può trarre da queste settimane di colpi di scena e accoltellamenti è che il progetto eurofobo ha perso e che l’unico strumento rimasto a sua disposizione è il «divide et impera» grazie al quale, in un Parlamento estremamente confuso, rischia comunque di arrivare all’obiettivo del «no deal». Il voto di sfiducia ha infatti messo in chiaro che sono solo 117, con l’aggiunta di qualche voce di sinistra, quelli che vogliono il caos assoluto. Una delle poche sicurezze è che Westminster, da sempre più moderata in materia di Europa, farà di tutto per evitare che si arrivi all’applicazione delle regole del WTO nel commercio tra Regno Unito e blocco europeo, anche se l’influenza che lo European Research Group, organizzazione di Jacob Rees-Mogg che di «ricerca» ha ben poco e che ha finora svolto il ruolo di partito all’interno del partito, ha già arrecato molti danni all’insieme del progetto della Brexit: sia David Cameron che la May hanno cercato di soddisfarne le richieste finendo col fare grandi errori, come il referendum stesso e la decisione di uscire dal mercato unico e di invocare l’articolo 50 senza avere un piano chiaro.

Il principio di realtà, nel dibattito degli ultimi anni, si è materializzato sotto forma di isola, quella irlandese, il cui problema di confini è diventato il cubo di Rubik della politica britannica. Un nodo aggravato dal fatto che la May ha la maggioranza a Westminster solo grazie all’appoggio degli unionisti del Dup. Una frontiera fisica non è una cosa con cui si possa scherzare: le tensioni esistono ancora, anche se su scala infinitamente minore rispetto ai bagni di sangue del passato. Voci di un referendum sulla riunificazione delle due Irlande, in tempi di faciloneria politica, sembrerebbero indicare una soluzione che, un po’ come la Brexit, ha alcuni dei tratti dell’utopia. Peccato che ci siano solidissime ragioni per le quali se non è successo in passato, è difficile che Belfast e Dublino possano riunirsi adesso senza problemi. Tutti a Westminster sono preoccupati dalla clausola di salvaguardia che Bruxelles pretende per evitare che il confine fisico venga messo nel caso del mancato raggiungimento di un accordo di libero scambio e quindi di una soluzione permanente tra Ue e Regno Unito. Manterrebbe la Gran Bretagna nell’unione doganale e l’Irlanda del Nord nel mercato unico, con regole diverse rispetto al resto del paese. Inutile far notare al Dup, partito fieramente avverso a questa clausola, che l’Ulster ha già regole diverse su aborto e matrimonio gay: non serve a riportare il partito a più miti consigli. L’abisso del no deal, con una frontiera fisica assicurata, appare ai loro occhi una soluzione più accettabile del compromesso della May. A riprova che nella situazione attuale molte persone vogliono mettersi in luce come battagliere e inflessibili più che raggiungere risultati concreti.

«Sono felice di aver ricevuto il sostegno dei miei colleghi», ha spiegato la May parlando dopo il voto di sfiducia davanti alla celebre porta nera del numero 10 di Downing Street. «Questa è la nostra nuova missione: realizzare la Brexit per la quale i britannici hanno votato e riunire il paese», ha spiegato. Per accrescere il suo sostegno, nel pomeriggio aveva lasciato trapelare attraverso il suo portavoce la notizia di non essere intenzionata a guidare il partito alle prossime elezioni, previste per il 2022. Vista la sua protratta debolezza, nessuno aveva mai pensato che potesse davvero essere la prossima leader e gente come Michael Gove non vede l’ora che lei porti a termine il compito della Brexit per poter voltare pagina e passare ad altro, senza più la patata bollente. Ci sarebbero state scene di pianto tra i deputati, poiché in molti hanno imparato a rispettarla in questi anni impossibili. Qualcuno ha notato che la promessa di andarsene non è legalmente vincolante, ma per il momento, nella volatilità attuale, è difficile capire cosa sia scolpito nella pietra e cosa invece no. Sicuramente darsi una data di scadenza non è cosa che rafforzi, ma Theresa «Maybe» si è già rimangiata la parola più volte in questi anni.

Cosa succederà ora? Il voto sull’accordo raggiunto con Bruxelles e sottoposto a un ultimo tentativo di modifica non dovrebbe svolgersi prima di Natale. La premier ha promesso che entro il 21 gennaio prossimo porterà a Westminster un piano d’azione, sotto forma di mozione. Mozione che può essere sottoposta a una serie di emendamenti, occasione ideale per proporre un secondo referendum o una Brexit più morbida, seguendo quel modello norvegese che piace a molti anche se non risolve il problema dell’immigrazione. Una delle ragioni per cui il voto del 12 dicembre indebolisce ad ogni modo la May è che ha permesso ai laburisti, che puntano ad andare alle urne, di valutare quanti deputati conservatori sono pronti a sostenere la loro eventuale mozione di sfiducia nei confronti del governo, ipotesi che il leader Labour Jeremy Corbyn va agitando da tempo e che potrebbe mettere in atto in caso di bocciatura dell’accordo. Se anche questo andasse male, potrebbe farsi largo un secondo referendum come unica soluzione. Theresa May ha sempre detto che ciò porterebbe solo confusione, tema di cui sta diventando molto esperta, ma anche lì potrebbe cambiare idea.