Theresa May, una morta che cammina

Regno Unito – Molti sondaggi (oltre al partito) danno per terminata l’avventura a Downing Street della premier e considerano queste legislative come una bocciatura della «hard Brexit»
/ 19.06.2017
di Cristina Marconi

«Morta che cammina» è una delle cose più gentili che siano state dette della premier britannica Theresa May dopo che ha vinto male le elezioni ma ha perso in maniera spettacolare la sua scommessa di uscire rafforzata dall’appuntamento elettorale dell’8 giugno. Ha portato a casa lo stesso numero di voti di Margaret Thatcher ai tempi d’oro – 13,6 milioni, solo John Major fece di meglio con 14 milioni – ma si è dimostrata legnosa e ripetitiva e soprattutto ha fatto un ricorso eccessivo agli attacchi personali contro il suo avversario Jeremy Corbyn, cosa che nel Paese del fair play non le è valsa molte simpatie. E quindi da premier più popolare dal Dopoguerra, la May sta iniziando questo suo secondo mandato a Downing Street consapevole che, a meno di miracoli, non durerà molto e che per quel poco che durerà dovrà vedersela con ogni insidia possibile. Soprattutto da parte di un partito, il suo, noto per essere particolarmente spietato verso i perdenti. 

Come prima cosa le sono state chieste le teste dei suoi due consiglieri, Fiona Hill e Nick Timothy, che oltre ad averle fatto sbagliare toni e messaggio della campagna con i loro modi bruschi le hanno alienato le simpatie e il possibile sostegno di buona parte del governo. Col risultato che ora a sostenerla davvero sono solo quelli che idealmente avrebbe voluto indebolire attraverso le elezioni, ossia gli eurofobi che vedono in lei l’unica speranza che la Brexit avvenga davvero.

Una delle analisi più ricorrenti del voto britannico è che sia stato una bocciatura della «hard Brexit» proposta dalla May, quella con cui in nome del controllo sull’immigrazione il Regno Unito è pronto a rinunciare anche all’accesso al mercato interno. Durante la campagna elettorale la premier ha ripetuto più volte che «è meglio non avere nessun accordo che averne uno cattivo», lasciando intendere di essere pronta a lasciare il tavolo negoziale con Bruxelles affidando i rapporti commerciali tra il Paese e il blocco europeo alle regole del WTO, organizzazione mondiale del commercio, giudicate penalizzanti e insostenibili da tutti, dalle imprese agli economisti. Che si sia trattato di una strategia negoziale o meno – la May è ossessionata dall’idea di non rivelare le carte che ha in mano – non le ha portato fortuna, perché il Labour, che ha le stesse spaccature interne dei Tories in materia di Unione europea, per il solo fatto di aver detto che invece un accordo va raggiunto ha attirato le simpatie addirittura dei banchieri e del mondo della finanza, più preoccupati da una Brexit disordinata che dall’aumento della tassazione per i redditi alti proposto da Jeremy Corbyn. Non è un caso che per la prima volta nella storia l’opulento quartiere di Kensington abbia eletto un deputato laburista: se pure il manifesto conservatore fosse stato più convincente da un punto di vista economico, tutti i suoi benefici sarebbero stati azzerati da una crisi inevitabile.

L’uscita dall’Unione europea, votata il 23 giugno del 2016 dal 52% dei britannici, non appare più definita ora di quanto lo fosse allora, e dall’ambiguità della domanda referendaria, che non specificava cosa intendere con Brexit, sono nati molti dei fraintendimenti attuali. Il voto alle elezioni generali ha ricalcato quello del referendum, con le zone pro-Brexit che hanno votato Tory e quelle pro-Leave che hanno votato Labour, ma le divisioni tra vecchi e giovani, cosmopoliti e provinciali, istruiti e culturalmente sprovvisti sono rimaste e continuano a prevalere su quelle tra sostenitori di un partito o dell’altro. Il risultato è che Corbyn si è dimostrato più scaltro e lungimirante del previsto nella sua presa di posizione timida e riluttante sull’Europa durante la campagna referendaria dell’anno scorso, permettendo a ciascuno di leggere nelle sue parole quello che voleva. Un atteggiamento ripetuto quest’anno – di Brexit ha parlato il meno possibile, in termini ambigui – che gli ha portato grandi vantaggi elettorali. Senza grandi sforzi ideologici: né Corbyn né il suo vice John McDonnel sono a favore dell’Unione europea, visto come un baluardo del libero mercato, e entrambi vogliono una Brexit che tuteli i posti di lavoro, qualunque cosa significhi. Ma già il fatto che sia una definizione vaga lascia sperare che non contenga misure suicide per l’economia del Paese.

Mentre la May sta lavorando ad un’alleanza molto criticata con gli unionisti democratici nordirlandesi del Dup, che hanno dieci deputati dalla visione sociale a dir poco conservatrice e la cui intesa con i Tories romperebbe a detta di molti quell’equilibrio che ha permesso il processo di pace in Irlanda del nord, le forze a favore di una «soft Brexit» non solo sono trasversali ma partono dal suo stesso partito. L’unica ad essere uscita dalle urne in una posizione di forza assoluta è infatti la leader dei conservatori scozzesi, la trentottenne Ruth Davidson, che ha portato il partito da uno a tredici deputati grazie ad un’abilità politica che agli occhi di molti la renderebbe l’inquilina ideale per Downing Street. La Davidson, che con il suo risultato è riuscita a mettere a tacere le spinte indipendentiste fomentate dall’SNP di Nicola Sturgeon, è però come tutti gli scozzesi a favore del mercato unico e ora si trova nella posizione di poter far valere la sua voce.

Un pezzo grosso del partito come l’ex ministro della Giustizia Michael Gove, nominato a sorpresa ministro dell’Ambiente sebbene sia nemico giurato della May, ha dichiarato che ci vuole il più ampio consenso politico possibile sulla Brexit. Le parole di Gove, che opportunisticamente si era schierato a favore del «Leave» al referendum mettendo in difficoltà il suo amico personale David Cameron, fanno pensare che ci sia uno spostamento di asse anche nel partito, dove una maggioranza ha probabilmente capito che inseguire l’estrema destra di Ukip non serve più.

«Il Paese ne ha abbastanza degli esperti» era la sorprendente frase con cui Gove, occhialini e piglio da intellettuale, aveva definito il tenore del dibattito sulla Brexit, in cui chiunque avesse un argomento più profondo di uno slogan veniva messo a tacere come nemico del popolo. Lo stesso è avvenuto per tutto l’anno in cui Theresa May è stata a Downing Street e il risultato è stato che per paura di non sembrare abbastanza decisa la premier in campagna elettorale si è limitata a ripetere solo slogan vuoti come «Brexit vuol dire Brexit». Con un’inflazione al 2,9% e un’economia che inizia a dare segni di rallentamento, forse è il momento di richiamare gli esperti, come ha proposto l’ex leader Tory William Hague, suggerendo di formare una commissione con tutte le parti interessate, non solo dalla sfera politica, per dare una direzione ai negoziati. Districare una questione tanto complessa affidandola ad un elettorato che sa di certo solo di volere la fine dell’austerità è troppo pericoloso ed è per questo che tutti cercheranno di evitare un nuovo voto. L’unico a volerlo è Corbyn, energizzato da una campagna riuscitissima anche se alimentata da un programma poco saldo da un punto di vista economico.

Da Bruxelles si moltiplicano i segnali di impazienza – «mica posso negoziare da solo», ha dichiarato Michel Barnier, responsabile Ue per la Brexit – e dalle cancellerie europee giunge qualche messaggio inaspettatamente conciliante, come quello lanciato dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, secondo cui i britannici verrebbero accolti a braccia aperte se cambiassero idea. La May deve pensare alla sua sopravvivenza politica, messa in discussione da tutti e legata indissolubilmente al fatto che per ora è lei lo scudo umano dei Brexiters, ossia gli unici ad avere le idee chiare in Parlamento: sbagliate, distruttive, suicide, ma chiare. Loro, come lei, potrebbero ritrovarsi presto superati.