Il momento in cui si raggiunge un accordo è, inevitabilmente, anche quello della concretezza, quello in cui tutti i nodi accumulati in 28 lunghi mesi vengono al pettine e una resa dei conti a lungo rimandata si fa inevitabile. Così è stato per la Brexit e per la premier Theresa May, instancabile e determinata tessitrice che, per aver dato una forma finale ai desideri sconnessi e contraddittori di un Paese e della sua classe politica, si è ritrovata alle prese con una serie di dimissioni e di attacchi che potrebbero portare alla fine della sua permanenza a Downing Street. Una profezia, quella del tramonto della May, che è stata già scritta mille volte e che fino ad ora si è dovuta scontrare con la realtà di una totale assenza di alternative per uscire dalla Ue senza riaccendere la santabarbara irlandese e senza condannare l’economia a un lento soffocamento.
Perché le 585 pagine di accordo con Bruxelles non sono belle e mettono effettivamente il Paese nella condizione di subire i dettami della Ue senza avere voce in capitolo, situazione nettamente peggiore di quella in cui il Regno Unito si trova in quanto Stato membro, ma sono anche l’unica via percorribile: la May, che fino a qualche anno fa era come uno dei ministri e deputati che criticano Bruxelles con virulenza senza sapere davvero di cosa parlano, lo ha sperimentato sulla sua pelle. Da donna tenace qual è, se avesse intravisto la possibilità di un accordo migliore l’avrebbe colta, lei che europeista non è mai davvero stata.
La quadratura del cerchio celtico funziona così: per evitare un confine fisico con la repubblica irlandese, in attesa che dopo la Brexit venga siglato un accordo di libero scambio tra Regno Unito e Unione europea in grado di definire le relazioni future tra i due blocchi e di regolare la situazione dell’isola una volta per tutte, l’Ulster continuerà ad adottare le regole del mercato interno e dell’unione doganale, con alcuni controlli sui beni in provenienza dal resto del Paese. Per minimizzare le differenze, anche il Regno Unito continuerà a essere provvisoriamente parte di una forma di unione doganale, cosa che turba molto gli euroscettici, i quali temono che la soluzione temporanea si cronicizzi e non se ne possa più uscire. Il negoziatore capo della Ue, Michel Barnier ha rassicurato sul fatto che «la soluzione temporanea» per l’Irlanda non debba essere utilizzata se non nel caso fallisse il tentativo di negoziare un accordo post-Brexit.
Anche se rinfocolare la guerra civile non è nell’interesse di nessuno, nessuno in questi giorni si trattiene dal giocare con il fuoco e anche gli unionisti nordirlandesi del DUP, sul cui sostegno esterno la May è costretta a contare per avere una maggioranza in Parlamento, hanno espresso gravi perplessità sulle misure previste. Che invece piacciono agli scozzesi, i quali si chiedono perché anche loro non possano avere una situazione privilegiata di rapporti più stretti con la Ue. Su quasi tutto, però, perché in materia di pesca è meglio l’indipendenza… Insomma, c’è poco da stupirsi che la May, davanti a esigenze tanto contraddittorie, non sia riuscita a portare a casa nulla di meglio.
Come l’estate scorsa, in questo novembre ancora tiepido si è riaperta la stagione delle dimissioni di massa, che stavolta potrebbero essere fatali alla premier. Dieci giorni fa il fratello minore di Boris Johnson, Jo, aveva lasciato il suo posto da sottosegretario dicendo che i negoziati sono stati «il più grande fallimento dell’arte del governo dai tempi della crisi di Suez», nel 1956, e chiedendo a gran voce un secondo referendum per strappare il paese all’incubo di una situazione in cui deve scegliere tra il «vassallaggio» delineato dall’accordo con la Ue e il «caos» di un «no deal», ipotesi che sembra ormai pericolosamente vicina. In molti hanno voluto leggere nel discorso della May davanti a Downing Street nella serata di mercoledì una prima ammissione del fatto che un nuovo voto è possibile, ma la premier, che del saper amministrare la confusione ha fatto il suo marchio di fabbrica, ha alluso al fatto che gli animi sono ancora più infiammati di due anni e mezzo fa e che l’incertezza è alle stelle, mentre un nuovo negoziato porterebbe «alla casella di partenza».
All’indomani della lunga riunione di governo di mercoledì, in cui tra le urla e le liti due ministri si sarebbero addirittura messi a piangere, il primo ad annunciare il suo addio è stato il ministro per la Brexit Dominic Raab, avvocato e deputato euroscettico che nelle ultime settimane aveva suscitato l’ilarità generale per aver scoperto che la tratta tra Dover e Calais è effettivamente molto importante per il commercio vista la «particolare conformazione geografica» – parole sue – della Gran Bretagna, che è un’isola. Di Raab si diceva anche che fosse d’accordo con i risultati del negoziato, ma vista la giovane età e le indubbie aspirazioni da leader, l’impressione è che abbia voluto prendere le distanze da un testo inevitabile che però, altrettanto inevitabilmente, è stato accolto male da tutti.
Per lui «nessun paese democratico» può accettare le misure pensate per l’Irlanda del Nord e per questo ha preferito andare via, come già il suo predecessore David Davis all’indomani della presentazione del piano dei Chequers, a cui l’accordo finale somiglia molto. Poco dopo è arrivata la notizia che anche Ester McVey, responsabile per le pensioni e tra i pochi membri del governo a ritenere che il «no deal» sia una strada percorribile, ha voltato i tacchi dicendo che il testo «non rispetta il risultato del referendum». Poi al valzer degli addii si sono uniti anche dei sottosegretari e delle figure junior dell’esecutivo.
Anche il leader dell’opposizione Jeremy Corbyn, che ha sempre criticato la May senza mai proporre un’alternativa che avesse un capo e una coda, ha detto che il testo non rispetta i parametri fissati dal Labour per valutarne l’accettabilità. Gli unionisti irlandesi del Dup hanno fatto sapere che si tratta di un «cattivo accordo» e usando la frase che la May soleva ripetere a ogni piè sospinto fino a qualche mese fa, «è meglio non avere nessun accordo che un cattivo accordo». Il travagliatissimo passaggio del documento attraverso l’approvazione dei ministri non è nulla rispetto alle forche caudine del voto in Parlamento previsto per metà dicembre, ammesso che ci si arrivi. I numeri non sono dalla parte della May, su cui continua a pendere il rischio di una mozione di sfiducia nel caso si raggiungesse la quota di 48 lettere inviate all’organismo competente del partito conservatore: se ne parla da mesi, ma per ora non è mai successo. I leader dell’Unione europea hanno invece dato educatamente disponibilità per un vertice il 25 novembre dedicato interamente al tema.
La May è come una sarta a cui sia stato chiesto di fare un vestito da sera corto ma lungo, largo ma attillato, con un tessuto brutto e senza le misure di chi deve indossarlo: il risultato è quello che è, ma lei ha fatto il massimo che poteva senza mancare di rispetto a chi ha avanzato la bizzarra richiesta. Il suo unico errore è stato quello di non denunciare da subito l’impossibilità del compito, ma in questo si è dimostrata una sincera democratica, più volitiva che coraggiosa. Il Paese in qualche modo dovrà rendere omaggio alla sua dedizione, quale che sia il risultato di queste giornate convulse, preludio inevitabile di un nuovo caos.