Non saranno una grande eleganza, tutt’altro, ma bisogna prenderne atto: tutte le metafore usate per Theresa May, premier britannica sull’orlo del collasso, vanno nella direzione della fine, della morta che cammina, della morta che non cammina neppure, del cadavere che qualcuno deve avere il coraggio di spostare da Downing Street, della bara. In una parola, di qualcosa che è già finito e che aspetta solo di essere rimosso. Il tempo stringe, Bruxelles si fa impaziente, la linea d’azione sulla Brexit manca del tutto e con essa tutto il resto, in un Paese scontento, diviso e incerto. La May ha rinviato il momento, perché sa che una volta che prenderà una posizione sul futuro del Paese diventerà apertamente attaccabile, soprattutto da parte di quei Brexiters che, seppur minoranza in parlamento, hanno dalla loro parte il risultato del voto del 23 giugno del 2016 a favore dell’uscita dalla Ue.
Ma ormai è chiaro che la «pax mayana», ossia quello stato semi-ipnotico in cui il Paese sta tergiversando come uno scolaretto che non ha voglia di fare i compiti, sta per finire. Quando succederà è tutto da vedere, ma ci sono delle scadenze: il 29 marzo del 2019 il Paese uscirà dalla Ue e se non vuole precipitare nell’abisso senza rete ha bisogno di un periodo di transizione che Bruxelles è disposta a concedere ma che va negoziato. Come tutto il resto.
«Darei qualunque cosa per un rattoppo in stile Cameron», spiega nostalgica una fonte di Westminster, sconsolata come tutti davanti all’attuale stile di governo che non è né inclusivo né ha i vantaggi dell’efficacia. La May ascolta solo i suoi e timorosa del dissenso impone decisioni dall’alto, tanto che dopo il disastroso risultato elettorale del giugno scorso al partito bastò che fossero cacciati i suoi due collaboratori più stretti, gli odiatissimi Fiona Hill e Nick Timothy, perché il partito trovasse almeno un po’ di pace. Pace che ora non c’è più: due deputate coraggiose, l’indomita Anna Soubry e l’altra pro-Ue Justine Greening, hanno fatto presente che in un partito guidato da un estremista pro-Brexit non sono pronte a rimanere. «A nessuno piace vedere un partito spaccato, ma ahimè con questo Labour inutile tocca ai Tories di buonsenso fare opposizione e mettere alcuni membri del governo davanti alle loro responsabilità», ci aveva spiegato la Soubry nei giorni scorsi, sottolineando come, con la visione di una hard Brexit bocciata dall’elettorato, «dobbiamo riportare tutte le opzioni sul tavolo e dimenticare gli approcci ideologici, tanto più che la Ue non ha escluso nessuna opzione dal tavolo».
Il problema è che i Brexiters sanno di dover passare all’attacco e di avere poco tempo per farlo. La May ha cercato di corteggiarli dicendo che dal 2019, durante il periodo di transizione, le regole per i cittadini europei che arrivano nel paese cambieranno, senza considerare che la Ue ha offerto la possibilità di estendere lo status quo europeo fino al 31 dicembre 2020 a condizione che tutte le regole europee continuino ad essere applicate. Una soluzione di cui il mondo industriale e imprenditoriale del paese ha disperato bisogno ma che la May continua a mettere a repentaglio con uscite di questo tipo, fatte per convincere l’elettorato di essere molto determinata.
E a riprova che le interessano i proclami più che la soluzione del problema dell’immigrazione europea, ci sarebbero degli strumenti perfettamente leciti da un punto di vista di diritto Ue che potrebbe applicare (e che avrebbe potuto tranquillamente applicare in passato) ma che dimostrano come, a distanza di due anni dalla campagna referendaria, la questione rimanga più simbolica che pratica: Bruxelles permette, ha sempre permesso, di registrare gli immigrati europei, di chiedere che abbiano un reddito minimo o che siano in grado di mantenersi, e di rimandare indietro chi non risponde a questi requisiti. Misure, volendo, molto più dure di quelle che si potrebbero ottenere negoziando, ma che il Regno Unito ha deciso di ignorare, almeno fino ad ora.
C’era un tempo in cui Boris Johnson, il ministro degli Esteri, sembrava la vera spina nel fianco di Theresa May, l’uomo dal carisma irresistibile e dalla parlantina sciolta in grado di dare alla vita fuori dall’Unione europea quello scintillio positivo che per ora non si vede. Eppure anche Boris se la deve vedere con un rivale di peso, con cui si è alleato per mettere i bastoni tra le ruote alla May: Jacob Rees-Mogg, deputato che la stampa solitamente descrive come «vittoriano» o «edoardiano», antiquato nello stile – ha studiato a Eton, lavora in finanza come suo padre – e nella visione sui temi sociali.
Un personaggio che fino a poco tempo fa era parte del cabinet of curiosities di casa Tory ma che ha iniziato ad avere una grande popolarità da qualche mese a questa parte proprio per il suo essere arcibritannico, elitista, quasi un relitto di un’epoca di gloria imperiale la cui perdita continua a pesare sulla psiche nazionale. Lo ha detto anche l’ambasciatore tedesco Peter Ammon che molti Brexiters «si definiscono per quello che i loro padri hanno fatto durante la guerra» e che questo dà loro un «grande orgoglio personale», costantemente rinfocolato da film e serie televisive che, da Darkest Hour a Dunkirk a The Crown, ribadiscono sempre lo stesso concetto. Per Ammon tutto questo è un male per il realismo e ha alimentato la Brexit, ma sono le tendenze che Jacob Rees-Mogg incarna bene e che offrono una narrativa rassicurante in tempo di crisi.
Ma mentre il fronte pro-Brexit si arma, l’onda pro-remain guadagna forza anch’essa. L’idea di un secondo referendum, ad esempio, inizia a circolare in maniera molto meno astratta che in passato, anche se tutti, dalle grandi capitali europee Bruxelles inclusa, fanno presente come rintanarsi in un’opzione altamente ipotetica e rischiosa, oltre che remota, faccia inevitabilmente ritardare i problemi molto concreti che ci sono sul tavolo adesso. Il primo dei quali è la relazione futura tra il Regno Unito e l’Unione europea, che continua ad oscillare tra il modello «Canada», ossia libero scambio commerciale con qualche beneficio in più, e quello «Norvegia», ossia partecipazione al mercato unico a condizione però che venga mantenuta anche la libera circolazione dei lavoratori.
Quest’ultima soluzione è quella che vorrebbero tutti i pragmatici che, come il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, sperano che in futuro cambi il meno possibile. Politicamente è uno scenario difficile da vendere perché, guardandolo da vicino, si capisce che ha tutti gli svantaggi della membership senza i vantaggi di poter votare le regole alle quali si è comunque tenuti ad attenersi. E poi non dà quel senso di cambiamento drastico che gli elettori hanno chiesto.
Intanto continuano ad affiorare studi e analisi che dimostrano quanto l’impatto della Brexit sarebbe dannoso per tutti i settori dell’economia, con perdite che neppure un trattato commerciale generoso con gli Stati Uniti riuscirebbe a compensare. Le previsioni sul futuro sono screditate da quando la fazione europeista durante la campagna ne ha fatto un uso smodato, senza che poi si rivelassero vere. La realtà è che i preparativi per questa Brexit si stanno dimostrando un esercizio logorante e sterile, in grado di stroncare qualunque carriera politica in due partiti, Labour e Tories, profondamente spaccati in materia. Theresa May si è offerta di farsi carico del compito ingrato, che ha affrontato usando tutti gli strumenti a sua disposizione tranne uno: la franchezza. Ha parlato al futuro fino a quando ha potuto e ora che la costringono a dire qualcosa di più concreto non ha più voce. Una situazione insostenibile, che potrebbe finire domani o durare per anni, fino a quando l’opinione pubblica non si innamorerà di un’alternativa per uscire dallo stallo.