L’avremmo trovato. Chi? Un santino cui assegnare il patronato spirituale dei «whistleblower», i coraggiosi che sfidano il potere per rendere noto quel che in uno Stato liberale e democratico non dovrebbe rimanere nascosto. È l’oftalmologo cinese di 34 anni, Li Wenliang il quale, constatate le prime infezioni da «coronavirus», aveva avvertito l’ospedale in cui lavorava e dato l’allarme su Internet. Contagiato lui pure, è morto il 7 febbraio. L’allarme da lui dato risaliva al 30 dicembre: fosse stato ascoltato, forse oggi si sarebbe meglio armati per arginare la diffusione del contagio. Quel poveraccio, denunciato alla polizia, fu accusato di «perturbare l’ordine sociale» e diffidato a smetterla. Si sa come è finita, per lui e per migliaia di altre persone, purtroppo.
Santini a parte, si deve constatare che il cielo si è tutt’altro che rischiarato per i coraggiosi protagonisti delle rivelazioni politicamente più delicate. Il soldato Chelsea Manning, che denunciò gli orrori della guerra condotta dagli Stati Uniti in Irak, vegeta tra una prigione e l’altra del suo Paese. Edward Snowden, il funzionario dei servizi segreti che rivelò a tre giornalisti i retroscena dello spionaggio universale organizzato dalla CIA, da sette anni è confinato a Mosca dove ha ottenuto asilo politico. L’America non può punire i giornalisti, per il principio costituzionale che vieta qualunque limitazione della libertà di stampa, ma perseguita chi li informa: è il caso di Julian Assange, l’inventore della rete WikiLeaks, detenuto in Gran Bretagna dove attende di sapere se la magistratura di sua maestà lo ritiene meritevole di estradizione come un volgare delinquente. Con la sua rete, Assange dovrebbe essere considerato un editore, uno che pubblica le notizie che i giornalisti gli danno da stampare o da mandare nell’etere (come si diceva una volta). Giornalisti senza editori non ne esistono: la libertà degli uni presuppone la libertà degli altri. O no?
Dal suo esilio moscovita, Snowden ha recentemente attirato l’attenzione sulla persecuzione in atto in Brasile contro Glenn Greenwald, il giornalista del «Guardian» al quale confidò i segreti della CIA. Molti ricorderanno CitizenFour (Premio Oscar per il documentario nel 2015), alcuni hanno letto la sua autobiografia: Errore di sistema, pubblicata da Longanesi: Greenwald risiedeva già, all’epoca di quella denuncia, in Brasile: collaborava al «Guardian» ma non si occupava degli Stati Uniti né dava fastidio alla politica del Paese che lo ospita. Oggi conduce inchieste sulla corruzione delle alte sfere dell’esercito e della politica brasiliana e perciò lo si accusa di «cospirazione criminale». Snowden scrive che Greenwald ha un nemico potente: il giudice Sergio Moro, oggi ministro della giustizia, che ha intentato il processo contro l’ex presidente Lula da Silva.
È dunque finita per i «whistleblower», visto com’è andata per molti di loro che hanno avuto il coraggio di metter fuori la faccia? Non è detto (lo dimostra la rivelazione – nuovamente opera di uno di loro – del ricatto contro l’Ucraina operato da Trump per screditare un concorrente politico), ma il sistema mediatico ne ha già tratto le conseguenze e ha creato un’agenzia, con sede negli Stati Uniti, di cui sono azionisti i principali giornali e agenzie del mondo. Si chiama «Consorzio internazionale del giornalismo d’inchiesta» (ICIJ), vi collaborano 267 giornalisti di 95 testate e di 67 Paesi. Se tu passi attraverso i giornalisti (e i giornalisti, forti del segreto professionale giuridicamente riconosciuto, ti proteggono) la sicurezza cresce: così il «New York Times» non poté venire incriminato, negli Anni Sessanta, benché avesse pubblicato i «Pentagon Papers», in cui c’era la prova che l’incidente del Golfo del Tonchino, nella guerra del Vietnam, era stato, diciamo così, provocato. Ovvio che l’agenzia debba lavorare con metodi corretti, per cui, individuato il mascalzone di turno, lo deve interpellare per sentire se vuole dire la sua. Così hanno funzionato i «Panama Papers»: la denuncia – con nomi, cognomi e indirizzi, tutti singolarmente verificati – di un gran numero di evasori del fisco; oppure i «Paradise Papers»: la prova che le grandi multinazionali – Facebook, Nike, Apple – sottraggono almeno il 40 per cento dei loro profitti delocalizzandoli nei paradisi fiscali; o più di recente la denuncia delle ruberie della figlia del presidente storico dell’Angola – uno dei Paesi più poveri del mondo – aiutata a nascondere il maltolto da imprese e studi di avvocatura e di consulenza di mezzo mondo, Svizzera compresa. La Svizzera è rappresentata in questo consorzio dal «Tages-Anzeiger» di Zurigo, che ha istituito una redazione «ad hoc» con sede a Berna.
Ma non si era detto che i Paesi democratici stavano provvedendo in qualche modo alla protezione dei «whistleblower», capita l’utilità di offrire al denunciante onesto una qualche garanzia? Esiste una Direttiva approvata il 7 ottobre 2019 dal Consiglio dell’Unione europea, che gli Stati membri hanno tempo fino al 17 dicembre 2021 per recepire nel diritto nazionale. Molti Stati europei, del resto – compresa l’Italia – avevano già approvato norme a riguardo. E la Svizzera? Purtroppo, i tentativi del Consiglio federale (a partire dal 2014) perché «violazioni della legge e irregolarità non vanno taciute ma segnalate ai datori di lavoro e alle autorità, nell’interesse dell’economia e della società» (era comunque escluso il ricorso ai media…) non sono piaciuti alle Camere, che il 5 marzo scorso hanno affossato definitivamente il progetto.Meravigliarsi, allora, che qualche giornale si immischi?
Riferimenti
Documenti dell’Assemblea federale
Espionage charges against Assange are a «terrifying» threat to press freedom, by Jon Allsop, «Columbia Journalism Review», 24 maggio 2019.
Un lanceur d’alerte dénonce une tentative de dissimuler la téneur de la conversation entre Trump e Zelenski, «Le Monde», 28 settembre 2019.
Au Brésil, un coup dur pour la liberté de la presse, di Edward Snowden, «Le Monde», 1. febbraio 2020.
La mort d’un médecin lanceur d’alerte crée l’émoi en Chine, «Le Monde», 8 febbraio 2020.
Paradisi fiscali, i progressi non scagionano la Svizzera. Comunicato di Alliance Sud, 17 febbraio 2020, citato dal «Corriere del Ticino» del 18 febbraio.