È dunque questa, la democrazia diretta? Una fuga dalle responsabilità della democrazia rappresentativa? Dopo la consultazione in rete della cosiddetta base grillina, chiamata a decidere sul destino di Matteo Salvini, è una delle domande che si pone il mondo politico romano. La base si è espressa per il 59 per cento a favore dell’immunità, invitando i gruppi parlamentari a tenere il vicepresidente del consiglio e ministro dell’Interno al riparo dalle attenzioni giudiziarie. Il caso è noto: da una parte una nave cui fu lungamente impedito di sbarcare alcune centinaia di profughi nei porti italiani e l’avvio di una procedura per sequestro di persona a carico di Salvini, che aveva imposto il blocco.
Dall’altra parte una forza politica, il Movimento 5 Stelle, da sempre abbarbicata a una visione giustizialista e anti-casta, dunque ostile a ogni forma di immunità e impunità. In mezzo il capo della Lega che ostentava sicurezza: galvanizzato da una popolarità crescente, in buona parte dovuta proprio alla sua politica muscolare in materia di migranti, attendeva apparentemente tranquillo la prova di fiducia o l’aureola del martirio giudiziario. Sepolta nel passato, forse superata da una sottile inquietudine, la vecchia spavalda divisa: processatemi, non ho niente da temere.
Il rito si è celebrato sulla piattaforma Rousseau, che nel nome del filosofo ginevrino padre della democrazia diretta organizza il Movimento gestita dalla Casaleggio Associati, che è per così dire il vertice più o meno occulto, l’eminenza grigia dei Cinquestelle. Questa sorta di delega a una rappresentanza di frequentatori della rete (hanno votato poco più di cinquantamila persone) da parte di una forza politica votata da milioni di elettori rivela un evidente imbarazzo. Proprio non se la sentiva, il gruppo dirigente a cominciare dall’altro vicepresidente del consiglio, il capo politico del Movimento Luigi Di Maio, di risolvere il dilemma alla maniera di Alessandro il Grande, con un risoluto colpo di spada.
E così da Alessandro si è preferito ripiegare su Pilato: laviamocene le mani, non abbiamo forse i fedelissimi pronti a intervenire in rete? Ebbene se la vedano loro con questa intricata vicenda. Non possono conoscere la pratica non avendo a disposizione le carte processuali? Poco male, il popolo sovrano sa il fatto suo! In più la consultazione si è svolta in modo caotico, la formula su cui si doveva scegliere era ambigua, rispondendo sì alla domanda se il blocco della nave coi profughi fosse giustificato dall’interesse nazionale si diceva no all’incriminazione di Salvini, e viceversa. Qualcuno inoltre fa notare che il sistema si presta facilmente ad essere manipolato.
Il giorno del voto un esponente di Forza Italia aveva profetizzato: stasera o cade il governo o cade Di Maio. In realtà la situazione si è rivelata più farsesca che drammatica. Nessuno dei due è caduto ma certo non è stato un bello spettacolo: l’immagine complessiva della maggioranza e del governo e soprattutto la posizione personale del vicepresidente appaiono ulteriormente indebolite. Fra l’altro molti malumori persistono fra i parlamentari a cinque stelle, non è proprio sicurissimo che tutti seguiranno fedelmente l’indicazione della piattaforma Rousseau. Il Movimento fondato da Beppe Grillo, che si era espresso con sarcasmo sulle modalità della consultazione e non perde occasione per segnalare un crescente distacco dalla gestione Di Maio, è da tempo in calo di consensi e sembra ogni giorno di fronte a una sorta di prova della verità.
Le recenti elezioni in Abruzzo hanno confermato il declino ormai precipitoso di quella che un anno fa venne premiata come forza ispiratrice del cambiamento, di una nuova moralità politica, di una ferma attenzione alle ragioni del diritto. Di tutto questo che cosa resta? Lo storico Ernesto Galli della Loggia, che li aveva votati alle elezioni municipali di Roma, confessa in un’intervista a «Foglio» una «errata apertura di credito», visto che i Cinquestelle si sono rivelati «il nulla assoluto» con la loro «totale insipienza politica», il loro populismo «plebeo e straccione».
Sono tempi davvero amari per i grillini. Li turba fra l’altro un rapporto del tutto asimmetrico con gli amici-nemici della Lega. Raramente gli annali della politica hanno registrato una coalizione così dissonante. Ai dissapori ormai storici, come quello che riguarda la TAV, il collegamento ferroviario ad alta velocità voluto dalla Lega e osteggiato dai Cinquestelle, se n’è aggiunto un altro che investe in profondità la ragion d’essere dei due alleati. È la controversa questione delle autonomie che la Lega intende assicurare a tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Nella visione del capo politico dei Cinquestelle questo implica un vantaggio ulteriore per il florido Nord a scapito del povero Mezzogiorno. Non a caso quelle tre regioni sono il principale serbatoio di consensi leghisti, mentre nel Sud domina il Movimento, o almeno ha dominato fino alle elezioni politiche dello scorso anno. Lo stesso Sud che ha voluto favorire con l’introduzione del reddito di cittadinanza, esecrato al Nord come sussidio ai fannulloni.
È dunque in condizioni d’emergenza che Di Maio vede avvicinarsi il voto di maggio per il rinnovo del parlamento europeo. Stordito dalla disfatta abruzzese, indebolito dalle incertezze manifestate sul tema dell’immunità per Salvini, deve anche pagare il conto delle sue disinvolte improvvisazioni in politica estera. Alla disperata ricerca di forze omogenee con cui costruire il gruppo parlamentare a Strasburgo, si muove sul terreno della diplomazia non proprio con la grazia che quel terreno richiede. Come nel caso del bisticcio con la Francia di Emmanuel Macron generato dalle critiche alle politiche africane di Parigi e dall’abbraccio ai gilets jaunes, una crisi faticosamente ricomposta dal presidente francese che ha scavalcato il governo di Roma trattando direttamente con il capo dello stato Sergio Mattarella.
Ansioso di rimediare allo sgarbo diplomatico, Di Maio è scivolato nel ridicolo inviando una lettera al quotidiano «Le Monde» in cui rendeva omaggio alla «millenaria» democrazia francese! Del resto l’approssimativo approccio alle relazioni internazionali investe l’intero governo giallo-verde. Che dire dell’atteggiamento sul Venezuela? Unico Paese dell’Unione europea a non incoraggiare la transizione democratica tentata da Juan Guaidó, l’Italia si è rifugiata in un terzomondismo stile anni Settanta, per poi prodursi in una parziale marcia indietro affidata al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi.
Tutto questo non giova certo al «governo del cambiamento», che un anno fa si proponeva di rivoltare l’Italia come un calzino, di condizionare l’Unione europea, di proporre al mondo un modello alternativo al sistema. Il panorama politico italiano è dominato dalla figura del leghista Matteo Salvini. Eppure anche su quel versante si registra qualche scricchiolio. È vero che la Lega è consacrata dai sondaggi come il partito più forte, ma la sua ascesa fin qui inarrestabile appare ora in fase di esaurimento, sia pure dopo avere raggiunto la stessa vetta, circa un terzo dei consensi, che alle elezioni politiche dello scorso anno premiò i Cinquestelle, nel frattempo calati di una decina di punti. Al tempo stesso le formazioni tradizionali, come il Partito democratico e Forza Italia, dopo mesi di coma hanno dato qualche timido segno di ripresa.
Accanto al tema migratorio, principale ragione della popolarità di Salvini che lo ha ridimensionato sia pure a costo di ricacciare i profughi nell’inferno libico, sembra riguadagnare terreno quello del rapporto con l’Unione europea, da tempo considerata una sovrastruttura distante, burocratica, impopolare. Mentre tanti problemi restano irrisolti e l’economia continua a perdere colpi si fa strada un desiderio fin qui largamente insoddisfatto: certo, si vorrebbe un governo che sappia cambiare le cose, ma prima di tutto un governo di persone competenti.