Fra gli insegnamenti della pandemia da SARS-CoV-2 vi è quello, per cui, laddove non si intercetti il vento di cambiamento, quest’ultimo si imporrà comunque e spariglierà le carte in tavola. Per anni, in ambito lavorativo, è innegabile che vi sia stata reticenza nei confronti dello smart working, che non è però innovazione recente in quanto già diffusamente teorizzata fra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 quale strumento lavorativo complementare: ricordavo già nel numero 27 di «Azione» come in tempi pre-pandemia fosse consueta la domanda al telelavoratore avvistato dal vicino di casa in giorni feriali «Oggi non lavora?».
Tale riluttanza trova svariate ragioni: timori di perdita del controllo da parte del datore di lavoro e/o responsabile ma anche delle associazioni di categoria; poca dimestichezza con l’utilizzo degli strumenti tecnologici, ma inadeguata organizzazione quale impossibilità di accedere a software e documenti da remoto. Però, se non si cambia per tempo, è il cambiamento a cambiarti. Nolenti o volenti, con lo scoppio della pandemia centinaia di milioni di lavoratori nel mondo – nella 32esima settimana del 2021 72,2 milioni di lavoratori negli USA dichiaravano di avere telelavorato negli ultimi sette giorni1 – sono passati dalla mattina alla sera a lavoro perlomeno ibrido o del tutto da remoto, palesando aziende e lavoratori refrattari ad un tassello del futuro lavorativo già da tempi pre-pandemia.
Certamente, si può discutere su pregi e difetti dello smart working (laddove adottabile) senza però dimenticare che può funzionare solo in presenza di: 1) senso di responsabilità da parte del collaboratore e fiducia del datore di lavoro; 2) capacità di fronteggiare flessibilità di tempi e modi; 3) spirito d’iniziativa anche in autonomia. Che tale approccio lavorativo vada anche nella direzione – spesso auspicata, sebbene meno praticata – di maggiore digitalizzazione (là dove effettivamente serva e non a solo scopo d’intrattenimento) e sostenibilità ambientale a fronte di riduzione di consumo di suolo, emissioni di CO2 ed efficienza lavorativa è un dato di fatto. Altrettanto vero è che il telelavoro abbia evitato un tracollo peggiore del PIL nel 2020 (-3,2%) e stia contribuendo alle proiezioni sostenute di ripresa globale (+6,0%)2. Lascia, pertanto, perlomeno smarriti leggere come multinazionali americane (peraltro, dell’ambito tecnologico) abbiano recentemente proposto di tagliare fino al 25% i salari dei lavoratori da remoto3. Ciò in forza di minori costi per il prenditore di lavoro, potendo abitare in zone più periferiche (meno costose).
Premesso che al datore di lavoro non dovrebbe interessare un aspetto pertinente alla libertà di scelta di ciascun collaboratore – viene da domandarsi, infatti, se conti effettivamente il risultato lavorativo o tutto il «corollario» –, la proposta pare macroeconomicamente parlando sdrucciolevole. Ridurre i salari dei lavoratori equivarrebbe – a parità di prezzi di vendita del bene o servizio prodotto – ad aumentare i ricavi a discapito della remunerazione lavorativa ed a vantaggio dei profitti aziendali. Del resto, non è un caso che i Paesi, in cui la classe lavorativa è particolarmente benestante, esibiscano un’elevata quota di salari su PIL (cfr. figura) che è invece da tempo diffusamente in calo. In altre parole, si acuirebbe la disparità salariale, abbassando il tenore di vita dei soggetti economici più deboli e fungendo da pericoloso effetto segnale per altre realtà lavorative. Laddove invece i prezzi di vendita del bene o servizio venissero tagliati proporzionalmente ai minori costi di produzione si assisterebbe ad una misura deflazionistica (se sufficientemente adottata), che non può essere certo nell’ottica di policymaker che mirano sia ad evitare «fiammate» inflazionistiche, ma soprattutto spirali deflazionistiche. Inutile aggiungere che tale misura – oltre ad essere in pieno contrasto con il principio, per cui siano merito e performance a contare – andrebbe anche a svantaggio di soggetti economici che vogliano conciliare meglio la work-life balance e della modernizzazione dell’attività economica in generale.
Se ne evince l’impressione che la connessione domestica ad Internet vada sì bene per giocare a qualche videogame o fare binge watching di serie televisive, ma non possa avere altre finalità quali lavorare con efficienza. La proposta di cui sopra poggia sul teorema delle minori spese, che il collaboratore andrebbe ad affrontare, e tralascia opportunisticamente quelle perlomeno uguali (se non maggiori): spazi abitativi adeguati, dotazione informatica (PC, linea veloce, stampante/scanner, antivirus etc.). E perché non considerare i consumi maggiori di elettricità, riscaldamento ecc., di cui invece vengono sgravati i locali aziendali?
Fonti
1. http://www2.census.gov/programs-surveys/demo/tables/hhp/2021/wk32/transport1_se_week32.xlsx
2. https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2021/07/27/world-economic-outlook-update-july-2021
3. https://www.forbes.com/sites/heidilynnekurter/2021/08/26/google-plans-to-cut-remote-workers-salaries-by-25-heres-the-impact/?sh=74f6cff94fb2
4. Elaborazione propria sulla base di: https://fred.stlouisfed.org/series/LABSHPDEA156NRUG
https://fred.stlouisfed.org/series/LABSHPITA156NRUG
https://fred.stlouisfed.org/series/LABSHPUSA156NRUG https://fred.stlouisfed.org/series/LABSHPCHA156NRUG