Telelavoro: da stigma a rivoluzione?

Additato dagli uni quale forma lavorativa soft e dagli altri considerato il futuro, dai tempi del Coronavirus è diventato imprescindibile
/ 29.06.2020
di Edoardo Beretta

Da tempo affermo la strategicità per le economie post-moderne di poter lavorare (anche) da remoto. Ecco che però, tutto d’un tratto, il COVID-19 ha prodotto la necessità aziendale – beninteso: laddove l’attività lo consenta – di organizzarsi per operare fuori ufficio (fra cui, da casa). L’«ironia della sorte» sta nel fatto che si sia dovuta creare una situazione di emergenza senza precedenti per «convincere» parte del settore reale che il cosiddetto «telelavoro» (o teleworking o smartworking) è una buona – se non ottima – alternativa, e ha fatto sì che parte del PIL originante nel settore terziario fosse trattenuto da una caduta ancora più vigorosa durante il lockdown. Auspicabilmente, però, quanto qui avvenuto non dovrebbe valere soltanto per situazioni eccezionali, ma costituire un potenziale scenario lavorativo futuro.

Ma quali sono i vantaggi? Certamente, la possibilità di operare senza confini di spazio accedendo a documenti e funzionalità altrimenti presenti in ufficio, il risparmio in termini di spese di trasporto, manutenzione infrastrutturale e danni ambientali. Resta anche acclarato da vari studi – la rivista «Forbes» ne scriveva già nel 20162) – come esso possa essere foriero di maggiore performance aziendale e soddisfazione della forza lavoro. Laddove vi fosse un’aggiunta da formulare sarebbe, semmai, che il telelavoro sia scenario ciclico (cfr. desk sharing), cioè «a turni» in base alle mansioni di back office, e comunque su base concordata. Così facendo, si ridurrebbe l’esigenza di spazi aziendali, che costituisce un limite strutturale all’impiego, oltre a prevenire che il telelavoro sia associato a contatti sociali ridotti. In Svizzera,  dal 2001 ad oggi i teleworker saltuari (dipendenti come indipendenti), cioè per almeno una volta al mese, sono quadruplicati da 250’000 a più di un milione di unità. Quanti svolgono telelavoro per più della metà delle ore lavorative complessive sono, invece, passati da 30’000 (nel 2001) a 138’000 persone. Complessivamente, se nel 2001 solo un lavoratore su dieci era (almeno saltuariamente) un teleworker, attualmente lo è il 23,8% della popolazione lavorativa3).

Ma, se i benefici paiono prevalere, perché stenta a decollare nella gran parte dei Paesi avanzati? La risposta poggia su concezioni del lavoro inteso ancora come implicante presenza fisica misurabile in termini di orario (ad esempio, tramite il cosiddetto «cartellino») ma non necessariamente in termini di risultati. La domanda «Oggi non lavora?» i teleworker pre-COVID-19 – se «avvistati» durante un giorno feriale dal vicino di casa di turno – se la sono sentiti porre certamente più volte. Stereotipi, ovviamente, che però spiegano gran parte della reticenza esistente fino allo scoppio della pandemia. Ma il Coronavirus potrebbe aver generato un cambio di mentalità al di là della contigenza? È possibile, ma come tutte le rivoluzioni è necessario che il cambio di approccio sia endogeno, cioè provenga dall’interno del settore produttivo. 

Quest’ultimo è chiamato ad abbandonare preconcetti legati a luoghi, orari o altri elementi di solo apparente (in quanto visibile) controllo ma che poco in una società avanzata dicono sulla qualità della performance lavorativa: idealmente, invece, dovrebbero essere i risultati a contare (pur all’interno di un ammontare massimo di ore lavorative) e gli stessi collaboratori sentirsi responsabilizzati in quanto ben consapevoli di essere valutati regolarmente su tale base. Lo scopo coincide nel medio-lungo termine con quello che potrebbe apparire un’utopia, cioè ridurre la settimana lavorativa standard al massimo a quattro giorni come il fondatore del gruppo cinese Alibaba, Jack Ma, già nel 2017 sosteneva che sarebbe stato il caso fra trenta anni. 

Lo stesso economista John Maynard Keynes predisse nel 1930 che – tempo altri cento anni – si sarebbe lavorato quindici ore a settimana grazie al progresso tecnologico. Se sulle tempistiche vi è margine di discussione, non ve ne è per la direzione: lavorare meno (per numero di ore), ma meglio (per qualità e risultati). Del resto, le Nazioni più produttive si caratterizzano statisticamente quasi sempre per un numero annuo di ore-lavoro ben inferiore rispetto a quelle meno performanti. Se poi diversi Stati meditano (per motivi di budget) di aumentare l’età pensionabile, è bene che si sappia che ciò non corrisponde al principio per cui al progresso faccia necessariamente seguito una riduzione delle ore-lavoro: si pensi, infatti, come durante la Rivoluzione Industriale (1850 circa) la giornata lavorativa constasse ancora di 12 ore per sei giorni alla settimana. Ma questa è un’altra storia ancora.

Note

1. Elaborazione propria di: http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=lfsa_ehomp
2. http://www.forbes.com/sites/adigaskell/2016/01/15/why-a-flexible-worker-is-a-happy-and-productive-worker
3. http://www.bfs.admin.ch/bfs/de/home/statistiken/kultur-medien-informationsgesellschaft-sport/informationsgesellschaft/gesamtindikatoren/volkswirtschaft/teleheimarbeit.html.