Tasselli di un mosaico confuso

Elezioni USA 2016 - Alcuni piccoli spunti di riflessione per mettere a fuoco lo scenario di una situazione complessa e piena di incognite
/ 07.11.2016
di Federico Rampini

A poche ore dal voto americano, e dopo una defatigante campagna elettorale durata quasi due anni, il commento più calzante lo ha fatto lo storico inglese Andrew Roberts riesumando una battuta di Henry Kissinger all’epoca della prima guerra Iran-Iraq: «Peccato che non possano perdere entrambi». È forse l’unica cosa su cui oggi la maggioranza degli americani sono d’accordo: la scelta è fra due pessimi candidati, le cui debolezze sono diventate ancor più evidenti in quest’ultima fase segnata da fango, veleni, scandali, uno spettacolo da Repubblica delle banane. Se pensate di trascorrere la notte fra l’8 e il 9 incollati al televisore in attesa degli exit poll (che rischiano di arrivare quando da voi in Europa spunta l’alba), eccovi un mio manualetto, una guida personale che ho scritto a capitoli, per aiutarvi a decifrare i dati e a situarli nel quadro complessivo. Cominciando da un «riassunto delle ultime puntate», cioè una sintesi dell’atmosfera e delle previsioni nella dirittura finale.

Brividi tra i democratici 

Se Barack Obama critica l’Fbi, accentuando l’atmosfera da crisi istituzionale, ha le sue ragioni. Nel merito: l’Fbi sembra impegnata in fughe di notizie a senso unico, solo contro i democratici, avendo riesumato perfino una vecchia inchiesta su Bill Clinton di 15 anni fa. Ma per spiegare il gesto di Obama c’è un altro fattore: la paura. L’avvicinarsi del voto coincide con un aumento dell’incertezza.

Sondaggi

«Sì, Donald Trump ha un percorso verso la vittoria». Il verdetto è autorevole, porta la firma di Nate Silver (sito FiveThirtyEight), il massimo esperto di sondaggi. Il vantaggio di Hillary è sceso ai minimi termini, ormai tre o quattro punti: dentro la forchetta di errore statistico. Anche l’analisi che conta di più, quella compiuta Stato per Stato che sfocia sul conteggio dei «grandi elettori», dà lo stesso risultato: da due settimane la rimonta di Trump è netta. Tornano ad essere contendibili molti Stati in bilico che erano finiti nella casella di Hillary. 

Scandali vs. Obamacare

Perché questa frana tardiva nei consensi verso la candidata democratica? Il trend dei sondaggi era cominciato prima che l’Fbi rilanciasse lo scandalo delle email segrete, quindi non è detto che questo strappo abbia influito, anche se di certo è negativo per Hillary finire la campagna sulla difensiva, circondata da un’atmosfera di sospetti. I media di sinistra rilanciano gli scandali di Trump. Ma l’elettore forse si fa influenzare più da questioni che lo toccano personalmente: come l’aumento del 25 per cento nelle tariffe dell’assicurazione medica, che dà ragione alle accuse di Trump sulla riforma sanitaria di Obama.

Disciplina di partito

Determinante è anche il ri-compattamento delle due famiglie politiche. Più si avvicina la scadenza elettorale più si rafforza il riflesso di appartenenza in un paese fondamentalmente bi-partitico. Anche i repubblicani che lo attaccarono pubblicamente hanno finito per schierarsi con Trump. Quando lui toccò i minimi nei sondaggi una parte dei repubblicani erano in libera uscita o accarezzavano l’idea di un voto di protesta per il libertario Gary Johnson, ora «tornano a casa» pur di non rivedere una presidenza Clinton.

Voto afroamericano

Con gli elettori indecisi che ormai sono ridotti ai minimi, ora quel che conta è fare il pieno di consensi in casa propria. Il pericolo è l’assenteismo. Perciò spaventa i democratici il dato dalla Florida: nelle votazioni anticipate l’affluenza dei neri è stata inferiore al previsto, inferiore alle elezioni di Barack Obama. Hillary ha bisogno di fare il pieno di voti afroamericani per compensare il vantaggio di Trump fra i bianchi maschi. Idem fra ispanici e Millennial.

Mercati

Gli investitori preferiscono la continuità (Hillary) al salto nel buio (Trump). Non amano le proposte fiscali dei democratici (più tasse sui ricchi) ma detestano la retorica contro il libero scambio del repubblicano. Oltre a divorare sondaggi pubblici, le banche di Wall Street usano fonti private. Il calo della Borsa sembra «prevedere» una vittoria di Trump. Ma non è infallibile: a Londra la Borsa si era convinta che avrebbe vinto il Remain

Sistema elettorale

Il presidente degli Stati Uniti non viene eletto sulla base di una percentuale nazionale, per questo i sondaggi generalisti compiuti sui 50 Stati Usa sono un termometro di popolarità ma possono indicare un vincitore diverso da quello che alla fine conquisterà la Casa Bianca. Nel sistema americano i voti si contano Stato per Stato. Ciascuno Stato esprime un certo numero di «grandi elettori» che andranno a formare il collegio elettorale nazionale. Il peso dello Stato è proporzionale alla popolazione, sicché il numero uno è la California (55), secondo il Texas (38), al terzo posto si affiancano New York e la Florida (29 ciascuno), e così via. Vince chi si aggiudica 270 delegati. Con rarissime elezioni gli Stati applicano un sistema maggioritario puro, per cui il primo arrivato arraffa la totalità dei delegati nello Stato. Molti Stati esprimono tradizionalmente una maggioranza netta, di destra o di sinistra, il che accentua l’importanza di quegli Stati che invece sono «in bilico» e possono di volta in volta finire nel campo repubblicano (rosso) o democratico (blu). Tuttavia, sia per effetto di cambiamenti demografici (immigrazione) sia per il carattere anomalo di questa campagna e della candidatura Trump, non è escluso che le tradizionali preferenze politiche possano subire cambiamenti vistosi. 

L’altra elezione: Congresso

Si elegge anche la Camera dei deputati, e si rinnova un terzo del Senato. Chi conquista il Senato condiziona le nomine del presidente alla Corte suprema (fra l’altro), sicché è giusto dire che perfino il massimo organo giudiziario è in palio. Attualmente la Corte suprema è divisa a parità fra giudici repubblicani e democratici ma c’è un seggio vacante da riempire. 

La vittima quasi certa di questa elezione, chiunque vinca: la legittimazione dell’avversario. Quindi la possibilità di trovare intese bipartisan, e un’agenda di riforme condivise da varare rapidamente al Congresso. Su questa analisi del dopo-voto concordano quasi tutti. Se si avvera, avremo una democrazia più malata che mai, un sistema indeciso a tutto, un Congresso paralizzato. Se i repubblicani conservano almeno la Camera, lanceranno inchieste parlamentari a ripetizione su Hillary e i suoi scandali.

Alcuni Stati chiave. Florida 

Da sempre il trofeo più ambito tra i collegi in bilico. Fu decisiva (con brogli) nella sfida Bush-Gore. La demografia favorisce la Clinton: aumentano gli immigrati ispanici che hanno la cittadinanza, e non gradiscono la xenofobia di Trump. Ma lei può anche permettersi di perderla mentre per Trump un «percorso di vittoria» senza Florida è arduo. La media degli ultimi sondaggi assegna la Florida a Trump con un margine esiguo, dello 0,5%, ben al di sotto della probabilità di errore statistico.

Pennsylvania 

Con 20 «grandi elettori» è uno Stato medio-grande. C’è abbastanza classe operaia bianca danneggiata dalle delocalizzazioni, da essere conquistabile per Trump col suo protezionismo. Invece la Clinton è favorita con un margine di 5 punti. Forse per questo Trump ha parlato di «cose orrende» che accadono a Philadelphia: i presunti brogli sono un’allusione a qualcos’altro, troppi neri che votano. Ma se la sera di martedì 8 dovessimo scoprire che la Pennsylvania va a destra, sarebbe il segnale che i sondaggi hanno sbagliato, l’avvisaglia di una «frana» imprevista di Hillary.

Ohio 

Altro Stato industriale, cerniera tra la East Coast e il Midwest, ha un bottino di 18 voti. Era la roccaforte del governatore repubblicano (moderato) John Kasich malamente sconfitto da Trump nelle primarie. Anche se la Clinton gode di un leggero vantaggio nei sondaggi, qui il tycoon rimane competitivo. Strappare l’Ohio per lui può significare anche una performance migliore del previsto in altri Stati della cosiddetta «cintura della ruggine», la vecchia America delle fabbriche. 

Texas 

L’inverosimile traguardo che fa sognare i democratici. Dopo il presidente Lyndon Johnson (ultimo democratico texano alla Casa Bianca) lo Stato del Big Oil è passato stabilmente nel campo repubblicano. Con i suoi 38 grandi elettori è indispensabile alla destra per bilanciare la progressista California (55). I sondaggi lo assegnano a Trump, ma con un margine meno solido di altre tornate elettorali. Se dovesse scivolare a sinistra il Texas, si aprirebbe uno scenario da «landslide», la frana del Grand Old Party. Con effetti a catena sul Congresso dove i democratici potrebbero riconquistare la maggioranza non solo al Senato ma forse perfino alla Camera.

Le due Americhe 

Il rosso (che qui indica la destra) e il blu si mescolano poco. L’America liberal è prevalentemente sulle fasce costiere, quella conservatrice presidia il profondo Sud e i petro-Stati dove domina il business delle energie fossili. Le varianti sono spesso legate ai flussi migratori. Alcuni Stati del Sud sono diventati «contendibili» per i democratici in seguito all’aumento dell’elettorato ispanico. Non è scontato che gli immigrati siano di sinistra: nella sua storia il partito repubblicano ha saputo conquistare dei consensi tra italiani, irlandesi, polacchi. Ma le ultime posizioni sull’immigrazione hanno creato un solco.

Se i sondaggi sbagliano?

Cosa potrebbe determinare un flop delle previsioni? In genere chi mette in dubbio la loro attendibilità, pensa che possano sottostimare gli elettori di Trump. Due le ipotesi in questo caso. La prima è che esistano dei seguaci di Trump che si vergognano a palesarsi nei sondaggi; la seconda è che la campionatura delle indagini demoscopiche non tenga conto della capacità di attrazione del tycoon newyorchese su fasce di popolazione che tradizionalmente non vanno a votare. Sono supposizioni che ci inseguiranno ancora per qualche ora.