Mentre cominciano i preparativi per organizzare il 16 dicembre le celebrazioni di Dirbhaya Niwas, la giornata istituita a furor di popolo da organizzazioni femminili e per i diritti umani in memoria di tutte le vittime di stupro, ci troviamo a discutere per l’ennesima volta su una faccenda di scottante attualità che riguarda le donne musulmane in India. Nei mesi scorsi è stata inoltrata alla Corte Suprema una petizione per bandire il cosiddetto «triplo talaq». In parole povere, e per descrivere in poche righe qualcosa su cui sono stati scritti fiumi di inchiostro: se un uomo dice a sua moglie, sobrio e in presenza di testimoni «talaq, talaq, talaq», la signora deve considerarsi divorziata all’istante. Anzi, per usare il termine preciso, ripudiata. Non molto tempo fa ci eravamo tutti buttati sulle pagine di gossip pakistane e non, che riportavano il divorzio (dopo dieci mesi appena) tra il politico ex-giocatore di cricket Imran Khan e sua moglie Rehan, ex-giornalista della Bbc. Secondo tabloid e quotidiani, Imran avrebbe comunicato (da vero signore) il divorzio a Rehan via sms inviandole un messaggio con su scritto per tre volte «talaq». All’sms seguiva una breve mail con i dettagli della faccenda e una telefonata del segretario di Imran che formalizzava la cosa. Nei giorni scorsi, in un villaggio dell’Uttar Pradesh, l’intera comunità è scesa in piazza per sostenere una donna ripudiata per telefono dal marito che lavora all’estero. Motivo del divorzio? Aver partorito una bambina invece del desiderato maschietto. La legge, in India, appartiene a quel corpus di leggi speciali chiamato «personal law» che codifica le leggi applicabili agli appartenenti a singole comunità etniche o religiose.
Sono leggi valide soltanto per quelle comunità e non si applicano al resto della popolazione. Ne discende che una signora cittadina indiana ma di religione musulmana può vedersi buttata letteralmente in mezzo alla strada con una telefonata o con un sms mentre una concittadina cristiana o hindu, per considerarsi divorziata, deve invece andare in Tribunale. Le donne musulmane si sono appellate al principio di eguaglianza e al diritto di gender equality (ovviamente soltanto gli uomini possono usare il triplo «talaq»), e combattono ormai da tempo per abolire una legge indegna di ogni paese civile.
A difendere la legge islamica sono scesi in campo mullah e studiosi fondamentalisti di ogni genere, con argomentazioni sentite e discusse ormai fino alla nausea e che sono, in un certo senso, ancora più insultanti per le donne che pretendono di tutelare.
Per prevenire difatti l’uso del triplo «talaq» in un momento di rabbia o durante una lite coniugale, l’ineffabile legge islamica stabilisce quanto segue: se il marito si pente di aver detto «talaq» e vuole ritornare con la moglie, non può. Ritornare con la stessa donna è possibile difatti soltanto se la signora si risposa con un altro uomo e poi divorzia. Come dire: stai attento, perché perdi la proprietà esclusiva dell’oggetto in questione. I mullah si appellano al diritto di praticare liberamente la loro religione e gli usi e i costumi ad essa connessi: diritto garantito dalla Costituzione ma che, come ha ribadito il ministero della Legislazione in un affidavit alla Corte Suprema, non può e non deve essere confuso con la legge e i diritti civili. Aggiungendo che pratiche, ammesse dalle «personal laws» ma non dalle leggi costituzionali, come il triplo «talaq» e la poligamia «non possono essere considerate parte integrante di nessuna religione».
A dare una mano alle signore di religione islamica è sceso a sorpresa anche il ministro delle Finanze Arun Jaitley. Jaitley, con cui ho avuto l’onore di litigare diverse volte in diretta in vari talk show televisivi, questa volta ha deciso di fare la cosa giusta: magari per le ragioni sbagliate, puntualizzare cioè la completa immobilità sull’argomento da parte dei precedenti governi di centro-sinistra, ma tant’è. Jaitley ha dichiarato che esiste una fondamentale distinzione tra rituali e pratiche religiose e diritti costituzionali e che tutti i corpus di leggi che riguardano le singole comunità dovrebbero essere rivisti alla luce dei cambiamenti sociali e, soprattutto, dei principi costituzionali che dovrebbero essere uguali per ogni cittadino e garantiti per chiunque. Jaitley ha aggiunto che a tutti, e in particolare alle donne, «dovrebbe essere garantito il diritto di vivere con dignità». Invitando il legislatore a prendere atto dell’evoluzione della società nel suo complesso.
Noi tutti aspettiamo fiduciosi, sperando che nessuna donna si presenti più alla porta perché è stata ripudiata all’istante, non può più vedere i suoi figli e non sa dove andare o come guadagnarsi da vivere. Succede più spesso di quanto non si pensi, per causa del triplo «talaq» o di cosiddette tradizioni che considerano sempre la donna colpevole quando viene abbandonata dal marito. Molte non hanno altre alternative che finire sulla strada, alcune si sono tolte la vita. Ma si sa, per i barbuti sapienti fondamentalisti, la donna non è gente. Non per davvero.