Negli ultimi mesi la politica estera elvetica ha trovato spesso spazio sulle prime pagine dei media ed è stata oggetto di numerose critiche provenienti soprattutto dai Paesi alleati. Due sono stati i modi di agire del Consiglio federale, l’organo responsabile della politica estera svizzera, maggiormente criticati all’estero. Il primo riguarda il divieto imposto a Germania, Spagna e Danimarca di esportare in Ucraina materiale bellico di fabbricazione elvetica. Il Consiglio federale ha giustificato il suo divieto invocando il diritto della neutralità e l’articolo 18 della legge federale sul materiale bellico del 1996. La giustificazione non ha convinto i Governi alleati che hanno subito accusato la Svizzera di opportunismo, di favorire la Russia di Putin e di non voler salvare le vite che si posso risparmiare con l’impiego di armi e munizioni difensive svizzere. Da più parti è stata chiesta una maggiore solidarietà internazionale da parte della Confederazione. Numerosi tentativi fatti a livello parlamentare per superare gli ostacoli invocati dal Consiglio federale non hanno però finora dato alcun risultato. Secondo le ultime indiscrezioni, si apprende che un sistema di difesa contraerea sviluppato e testato in Svizzera, ma non prodotto nel nostro Paese, potrà essere esportato in Ucraina perché è stato fabbricato da un’azienda tedesca a Roma.
Il secondo modo di agire criticato si concentra sulla gestione dei soldi che i gerarchi russi hanno depositato nelle banche svizzere e che rientrano nelle sanzioni decise dal mondo occidentale, compresa la Svizzera, contro la Russia per l’aggressione militare dell’Ucraina. Secondo dati diffusi dall’Associazione dei banchieri, nel marzo 2022 le banche svizzere amministravano soldi di clienti russi per un importo di 150 miliardi di franchi. Per i dati diffusi dalla Segreteria di stato del Dipartimento federale dell’economia nello scorso mese di novembre l’importo complessivo dei valori patrimoniali russi bloccati ammontava a 7,5 miliardi di franchi, un totale che corrisponde dunque soltanto a una piccola parte dei capitali presenti. I Paesi del G7 hanno creato una task force internazionale che possa aiutare a individuare i soldi dei gerarchi russi. La Svizzera è stata invitata a partecipare alla task force, ma ha rifiutato preferendo agire autonomamente.
Di fronte a questo contesto poco favorevole il Consiglio federale si è mosso cercando di difendere la propria posizione sulla neutralità e sugli aiuti forniti all’Ucraina con dichiarazioni, interviste e con qualche viaggio nei Paesi vicini. Il presidente della Confederazione Alain Berset è stato a Berlino, in aprile, dal cancelliere Olaf Scholz. L’incontro si è però svolto in un clima insolitamente freddo, lontano dai tempi migliori che hanno vissuto le relazioni tra i due vicini, proprio a causa delle diverse posizioni sulla fornitura di materiale bellico all’Ucraina. Il capo del Dipartimento federale degli affari esteri Ignazio Cassis si è recato a Roma, pure in aprile, ed è stato ben accolto dal suo collega Antonio Tajani. L’Italia ha bisogno della Svizzera nella gestione dei flussi migratori e ha preferito non criticare la posizione elvetica nei confronti dell’Ucraina. Viola Amherd, infine, capa del Dipartimento federale della difesa, è stata a Bruxelles, in marzo, dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. Lo scopo del viaggio era di sondare la possibilità di una maggiore collaborazione della Svizzera con l’alleanza militare occidentale. Si trattava, insomma, di vedere se esiste la possibilità di rafforzare, la Partnership for Peace cui la Svizzera ha aderito nel 1996. Durante l’incontro, Stoltenberg non ha nascosto la sua sorpresa per la posizione della Svizzera sulla riesportazione delle armi all’Ucraina.
Di fronte ai cambiamenti geostrategici che ha provocato la guerra in Ucraina e ai gravi problemi che pongono soprattutto il clima e le migrazioni, sorge spontaneo l’interrogativo sul ruolo che il Consiglio federale sta svolgendo e sul modo in cui sta affrontando le sfide. Purtroppo la risposta non è molto soddisfacente. Il Governo federale non appare come un gruppo unito, compatto, in grado di orientarsi in una direzione ben definita. Ogni suo membro dà l’impressione di ripiegarsi sul proprio dipartimento e di pensare soprattutto alla sua rielezione. Soprattutto adesso che siamo a cinque mesi dalle elezioni federali. Due esempi soltanto: la neutralità e i rapporti con l’UE. Sulla neutralità i due consiglieri federali dell’UDC difendono la posizione del loro partito e sostengono l’iniziativa popolare per una neutralità integrale che ha lanciato Christoph Blocher. Il socialista Alain Berset si muove in una direzione parallela, mentre gli altri membri hanno posizioni svariate, meno tradizionali. È ovvio che in queste circostanze è praticamente impossibile mettersi d’accordo su una definizione aggiornata della neutralità.
Sui rapporti con l’UE, dopo l’interruzione del negoziato sull’accordo istituzionale, avvenuta due anni fa, abbiamo assistito a un vuoto di iniziative serie, con un moltiplicarsi di contatti preliminari senza alcun esito positivo. Il Consiglio federale non ha mai assunto una posizione chiara, non ha nessun piano B per rilanciare i rapporti bilaterali e non è riuscito a creare una maggioranza politica interna favorevole a una soluzione. E ora la responsabile del dossier, la segretaria di Stato Livia Leu, ha annunciato di voler rinunciare all’incarico. La presidenza del Consiglio di sicurezza dell’ONU, assunta durante il mese di maggio, fa slittare in secondo piano alcuni problemi e ne pone altri in risalto. Non cancella però la necessità per la Svizzera di definire la sua collocazione nel Continente europeo e la sua posizione di fronte al sistema di valori del mondo occidentale.
Una maggiore solidarietà e una maggiore collaborazione con le democrazie occidentali potrebbero essere nell’interesse della Svizzera? Probabilmente sì. Di recente l’ha dimostrato anche l’aiuto ricevuto dalla Francia per salvare i nostri connazionali in Sudan, con un aereo da trasporto che la Svizzera non possiede. La nuova situazione non costringerebbe a rinunciare alla neutralità, che è una parte importante e integrante della nostra storia, e probabilmente nemmeno ai buoni uffici. Anche se nel mondo attuale appare sempre più difficile immaginare che due parti in conflitto facciano appello alla Svizzera per una mediazione.